"Non desidero prendermi alcuna libertà di interpretazione, Padre," disse Gentle, maledicendosi per quell'errore. "Pensavo che volessi parlarmene tu stesso."
"Perché dovrei dirti ciò che già sai?" disse il Dio, che rifiutava di lasciarsi convincere prima di aver ricevuto una risposta convincente. "Tu sai già tutto ciò di cui hai bisogno..."
"Non tutto," disse Gentle, intuendo come poteva sviare il flusso.
"Che cosa ti manca?" domandò Hapexamendios. "Ti dirò tutto."
"Il Tuo viso, Padre."
"Viso? Che cos'ha il mio viso?"
"È ciò che mi manca. La visione del Tuo viso."
"Hai visto la mia città," replicò l'Imperscrutato. "È lei il mio viso."
"Non ne hai altri? Davvero, Padre? Nessuno?"
"Non sei soddisfatto così?" chiese Hapexamendios. "Non è abbastanza perfetto? Non è luminoso?"
"Troppo, Padre. È troppo glorioso."
"Come può una cosa essere troppo gloriosa?"
"Parte di me è umana, Padre, e quella parte è debole. Guardo questa città e mi sento eccitato. È un capolavoro..."
"Sì, lo è."
"È geniale."
"Sì, lo è."
"Ma Padre, concedimi una visione più semplice. Fammi vedere per un attimo il viso che ha fatto il mio viso, cosicché io possa sapere quale parte di me è Tua."
Udì qualcosa di simile a un sospiro nell'aria che lo circondava.
"Può sembrarti ridicolo," disse Gentle, "ma ho seguito questa strada perché volevo vedere un viso. Un viso amorevole." Nelle sue parole c'era sufficiente verità da dar loro un soffio di vera passione. Era in effetti un viso, quello che sperava di ritrovare alla fine del viaggio. "È chiedere troppo?" disse.
Nell'oscura arena davanti a lui ci fu un'onda di movimento, e Gentle fissò nell'oscurità, come se si aspettasse di vedere aprirsi una porta enorme. Invece Hapexamendios ordinò: "Riconciliatore, voltati dall'altra parte."
"Vuoi che me ne vada?"
"No. Solo che tu allontani il tuo sguardo."
Questo era un paradosso: gli diceva di guardare lontano quando era la vista a essere necessaria. Per la prima volta da quando era entrato nel Dominio, udì suoni diversi da una voce: un delicato fruscio, un picchiettio lontano, cigolii e ronzii accarezzarono le sue orecchie. E intorno a lui, piccoli movimenti nella strada solida mentre i monoliti si ammorbidivano e si inclinavano verso il mistero al quale egli aveva voltato le spalle. Uno scalino si spalancò e trasudò la sua essenza. Un muro si aprì dove la pietra incontrava la pietra, e uno rosso più scuro di ogni altro visto prima, uno scarlatto quasi nero, cadde in ruscelli, mentre le lastre cedevano la loro geometria, prestandosi al disegno dell'Imperscrutato. Da un balcone disfatto in alto vennero giù denti, e volute di viscere si sciolsero dai davanzali, trascinando nella loro caduta tende in stoffa.
Percependo l'intensificarsi di quel disfacimento, Gentle osò guardare ciò che gli era stato proibito, e con uno sguardo in tralice vide l'intera strada percorsa da movimenti fittissimi o insignificanti; forme che si infrangevano, forme che si solidificavano, forme che si inclinavano e si alzavano. Nel tumulto non c'era nulla di riconoscibile e Gentle stava per voltarsi quando uno dei muri che già si flettevano cadde nel flusso, e per un istante, non di più, dietro ad esso intravide una figura. Il momento fu sufficiente a riconoscere il viso che aveva visto, e a fissarlo nella sua memoria. Non c'era viso uguale nell'Imagica. Era stato reso squisito dal dolore e dalle ferite.
Pie era vivo e aspettava lì, nel mezzo di suo padre, prigioniero del prigioniero. Gentle fece di tutto per non saltare con lo spirito nel tumulto, chiedendo a Suo Padre di liberare il mystif. Gli avrebbe detto che questo era il suo maestro, il suo rinnovatore, il suo amico perfetto. Ma lottò contro questo desiderio, sapendo che avrebbe avuto conseguenze nefaste, preferendo voltarsi nuovamente, istupidito da ciò che aveva visto, mentre la strada dietro a lui continuava ad agitarsi violentemente. Anche se il corpo del mystif era stato segnato dai dolori che aveva sofferto, era più integro di quanto Gentle avesse osato sperare. Forse aveva tratto forza dalla terra sulla quale Hapexamendios aveva costruito la sua città, il Dominio sul quale un popolo aveva operato le sue magie prima che Dio venisse a costruirci la sua metropoli.
Ma come poteva convincere suo Padre a rinunciare al mystif? Pregandolo? Con ulteriori lusinghe? Mentre rimuginava sul problema, il tumulto intorno a lui cominciò a diminuire, e udì la voce di Hapexamendios alle sue spalle.
"Riconciliatore?"
"Sì, Padre?"
"Volevi vedere il mio viso."
"Sì, Padre?"
"Voltati e guarda."
Gentle obbedì. La strada davanti a lui non aveva completamente perso l'aspetto di una via principale. Gli edifici erano ancora in piedi, le loro porte e finestre ancora visibili. Ma il loro architetto aveva preso dalla loro sostanza abbastanza elementi del corpo che aveva un tempo posseduto per ricrearlo a beneficio di Gentle. Il Padre era naturalmente umano, e nella sua prima incarnazione era forse stato non più alto di suo figlio. Ma si era ricreato tre volte più alto di Gentle o forse di più, un gigante che era allo stesso tempo sostenuto e costituito dalla strada.
Ma nonostante le Sue dimensioni imponenti, la Sua complessione era in qualche modo deforme, come se avesse dimenticato il significato dell'integrità. La testa era enorme, giacché per costruirla aveva utilizzato i frammenti di migliaia di crani traendoli dagli edifici, ma li aveva fusi in modo tanto caotico che il cervello che quel cranio avrebbe dovuto proteggere si intravedeva tra i pezzi sconnessi, pulsante e vibrante. Un braccio era enorme, ma terminava in una mano poco più grande di quella di Gentle, mentre l'altro era come avvizzito, pur esibendo dita che avevano tre dozzine di articolazioni. Il tronco era un altro insieme di fusioni malriuscite: le interiora si agitavano in una gabbia di mezzo migliaio di costole; l'enorme cuore batteva contro uno sterno troppo debole per contenerlo, e che infatti era già fratturato. E sotto, sul Suo inguine, la deformazione più strana: un sesso che pendeva a lembi, grezzo e inutile.
"Mi vedi ora?" disse il Dio.
L'impassibilità era scomparsa dalla Sua voce, e la monotonia era stata sostituita da un insieme di voci, come se molte laringi, nessuna di esse intera, fosse all'opera per produrre ogni parola.
"Riconosci la somiglianza?" disse nuovamente.
Gentle fissò quell'abominio davanti a lui, e nonostante tutti i pezzi raffazzonati e smembrati, si accorse di coglierla, la somiglianza. Non nelle membra, o nel tronco, o nel sesso. Ma c'era. Quando l'enorme testa venne sollevata, vide il proprio viso in quella rovina. Un riflesso di un riflesso di un riflesso forse, e tutto in specchi rotti. Ma oh! se c'era. Vederla lo sconvolse oltremodo, non per la somiglianza in sé, ma perché i loro ruoli gli parvero improvvisamente invertirsi. Nonostante le sue dimensioni, l'entità che gli stava davanti era un bambino, la testa di un feto, le membra informi. Aveva l'età dell'eternità, ma era incapace di abbandonare la realtà della carne, mentre lui, Gentle, con tutta la sua ingenuità, aveva accettato di rinunciarvi.
"Hai visto abbastanza, Riconciliatore?" disse Hapexamendios.
"Non ancora."
"Cosa vuoi di più?"
Gentle sapeva che quello era il momento di parlare, prima che la somiglianza venisse eliminata e i muri nuovamente sigillati.
"Padre, voglio ciò che c'è dentro di te."
"In me?"
"Il tuo prigioniero, Padre. Voglio il tuo prigioniero."
"Non ho prigionieri."
"Sono tuo Figlio," disse Gentle. "Carne della tua carne. Perché mi menti?"
La pesante testa tremò. Il cuore batté con forza contro lo sterno spezzato.
"C'è qualcosa che non vuoi farmi sapere?" disse Gentle, dirigendosi verso quel corpo infelice. "Mi hai detto che potevo sapere tutto." Entrambe le mani di Dio, la grande e la piccola, si contrassero nervosamente. "Tutto hai detto, perché ti avevo reso un servizio tanto perfetto. Ma ora c'è qualcosa che vuoi nascondermi."
"Non c'è nulla."
"Allora fammi vedere il mystif. Lasciami vedere Pie'oh'pah."
In quel momento il corpo di Dio cominciò ad agitarsi, come anche le mura intorno ad esso. Dal mosaico crepato del suo cranio eruppe la luce: piccoli pensieri rabbiosi che cremarono l'aria tra le pieghe del Suo cervello. Lo spettacolo ricordò a Gentle che per quanto la sua figura apparisse fragile, non misurava che una minima parte delle vere dimensioni di Hapexamendios. Egli era una città grande quanto un mondo, e se il potere che aveva costruito quella città e fatto scorrere il sangue luminoso nelle sue pietre fosse mai stato rivolto alla distruzione, avrebbe fatto impallidire quello dei Nullianac.
La costante avanzata di Gentle si arrestò. Anche se era un puro spirito e aveva pensato che nessuna barriera potesse essere innalzata contro di lui, se ne trovò ora davanti una che intorbidiva l'aria. Nonostante questo, e nonostante il terrore che provava quando pensava ai poteri di suo Padre, non si ritrasse. Sapeva che se lo avesse fatto il dialogo sarebbe terminato e Hapexamendios si sarebbe rivolto alla Sua ultima occupazione, senza aver rilasciato il Suo prigioniero.
"Dov'è il figlio puro e obbediente che avevo?" chiese il Dio.
"È ancora qui," rispose Gentle. "Vuole ancora servirti, ma dovrai trattarlo con dignità."
Una serie di esplosioni ancora più livide eruppe dal cranio dilatato. Questa volta però eruppero dalla sua sommità e si levarono nell'aria scura, proprio sopra il capo immenso. L'energia conteneva delle immagini. Frammenti dei pensieri di Hapexamendios, fatti di fuoco. Uno di loro era Pie.
"Tu non hai niente a che fare con il mystif," disse Hapexamendios. "Appartiene a me."
"No, Padre."
"A me."
"L'ho sposato, Padre."
I lampi si calmarono per un attimo, e gli occhi globulosi del Dio si strinsero.
"Mi ha spinto a ricordare la mia missione," disse Gentle. "Mi ha spinto a ricordare di essere un Riconciliatore. Non sarei qui e non ti avrei servito se non fosse stato per Pie'oh'pah."
"Forse un tempo ti ha amato..." replicarono le molte gole. "Ma ora voglio che tu lo dimentichi. Toglitelo dalla testa per sempre."
"Perché?"
Ottenne l'eterna risposta dei genitori a un figlio che fa troppe domande.
"Perché te lo dico io," disse Dio.
Ma Gentle non si lasciò convincere tanto facilmente. Continuò a domandare.
"Che cosa sa, Padre?"
"Niente."
"Sa da dove viene Nisi Nirvana? È questo quello che sa?"
A quel punto il fuoco nel cranio dell'Imperscrutato ribolli.
"Chi ti ha parlato di questo?" si infuriò.
Non aveva senso mentire, pensò Gentle.
"Mia madre," disse.
Ogni movimento nel corpo enfiato di Dio si arrestò, compreso il cuore che batteva sulla gabbia. Solo il fulmine continuò a vibrare, e la parola che seguì non venne dalle gole unite, ma dal fuoco stesso. Tre sillabe, pronunciate con voce di morte.
"Cel. Est. Ine."
"Sì, Padre."
"È morta," disse il fulmine.
"No, Padre. Ero tra le sue braccia pochi minuti fa," Alzò la sua mano, per quanto traslucente. "Ha tenuto queste dita. Le ha baciate. E mi ha detto..."
"Non voglio sentire!"
"... di ricordarti..."
"Dov'è?"
"... di Nisi Nirvana."
"Dov'è? Dove? Dove?"
Era rimasto immobile, ma ora si levò nella Sua furia, alzando le membra sgraziate sopra la testa come per immergerle nella Sua stessa luce.
"Dov'è?" gridò, dalle gole e dal fuoco all'unisono. "Voglio vederla! Voglio vederla!"
Sulle scale sotto la Stanza della Meditazione, Jude si alzò in piedi. I gek-a-gek avevano iniziato a emettere un lamento gutturale, che era a suo modo più sconvolgente di qualsiasi altro suono avesse udito da loro. Avevano paura. Li vide scivolare lontano dai loro posti, accanto alla porta, come cani che temono di essere picchiati, le schiene abbassate, le teste appiattite.
Lei guardò gli altri, al piano di sotto: gli angeli ancora inginocchiati accanto al loro Maestro ferito e Monday e Hoi Polloi che abbandonavano la loro veglia sullo scalino e ritornavano alla luce delle candele, come se il loro piccolo cerchio potesse salvarli dal potere che si agitava nell'aria.
"Oh, Madre..." udì sussurrare Sartori.
"Sì, figlio?"
"Ci sta cercando, Madre."
"Lo so."
"Puoi sentirlo?"
"Sì figlio, posso sentirlo."
"Tienimi la mano, Madre. Vuoi?"
"Dove? Dove?" ululava il Dio, e negli archi sopra il Suo cranio, apparvero spezzoni delle immagini della sua mente.
C'era un fiume; e una città, più monotona della Sua metropoli ma per questo più bella; e una certa strada; e una certa casa. Gentle vide l'occhio che Monday aveva scarabocchiato sulla porta principale, la sua pupilla distrutta dall'attacco dell'Oviate. Vide il proprio corpo, con Clem accanto; e le scale; e Jude sulle scale, che saliva.
E poi la stanza all'ultimo piano, e il cerchio nella stanza, con suo fratello che vi sedeva al centro, e sua madre, inginocchiata sui bordi del cerchio.
"Cel. Est. Ine," disse il Dio. "Cel. Est. Ine!"
Non fu la voce di Sartori a emettere quelle sillabe, ma furono le sue labbra che si mossero a formarle. Jude era ora in cima alle scale, e vide chiaramente la faccia di lui. Era ancora umida di lacrime, ma non aveva assolutamente nessuna espressione. Non aveva mai visto dei lineamenti tanto privi di sentimento. Era un recipiente che si riempiva di un'altra anima.
"Figlio?" disse Celestine.
"Allontanati da lui," mormorò Jude.
Celestine cominciò ad alzarsi. "Mi sembri malato, bambino mio," disse.
La voce tornò: questa volta fu una smentita furiosa.
"Io non sono. Un. Bambino."
"Volevi che ti confortassi," disse Celestine. "Lascia che lo faccia."
Gli occhi di Sartori guardarono in alto, ma non fu solo il suo Sguardo a fissarsi su di lei.
"Stai. Lontana," disse.
"Voglio abbracciarti," disse Celestine, e anziché ritrarsi entrò nei confini del cerchio.
Sul pianerottolo i gek-a-gek erano ora terrorizzati, e la loro ritirata furtiva divenne una danza di panico. Sbattevano la testa contro il muro come per far uscire a martellate i loro cervelli piuttosto che udire la voce che proveniva da Sartori; una voce disperata e mostruosa che continuava a ripetere: "Stai. Lontana. Stai. Lontana."
Ma Celestine non si lasciò allontanare. Si inginocchiò nuovamente davanti a Sartori. Ma quando parlò non parlò con il figlio, bensì con il Padre, con il Dio che l'aveva portata nella sua città di iniquità.
"Amore, lascia che ti tocchi," disse. "Lascia che ti tocchi, come tu hai toccato me."
"No!" gridò Hapexamendios, ma gli arti di Suo figlio rifiutarono di alzarsi e respingere l'abbraccio.
Il diniego continuò, ma Celestine non se ne diede pensiero, e le sue braccia li circondarono entrambi, la carne e lo spirito in un unico abbraccio.
Questa volta, quando il Dio diede sfogo al suo rifiuto, non lo fece più con una parola, ma con un suono, pietoso e terrificante insieme.
Nel Primo, Gentle vide il tuono sopra la testa di suo Padre raggelarsi in un'unica fiamma accecante, e allontanarsi da Lui come una meteora.
Nel Secondo, Chicka Jackeen vide la fiamma illuminare l'Annullamento e cadde in ginocchio sul terreno pietroso. Un segnale di fuoco stava arrivando, pensò, per annunciare il momento della vittoria.
A Yzordderrex, le Dee capirono cosa significava. Quando il fuoco fuoriuscì dall'Annullamento e entrò nel Secondo Dominio, le acque intorno al Tempio si calmarono, come per non attirare la morte su di loro. Ogni bambino venne fatto tacere, ogni pozza e rivoletto arrestati. Ma la malvagità del fuoco non era diretta a loro e la meteora passò sopra la città lasciandola indenne, superando in lucentezza il bagliore della Cometa.
Quando il fuoco non fu più visibile, Gentle si voltò nuovamente verso il Padre.
"Che cosa hai fatto?" domandò.
L'attenzione del Dio indugiò per un po' sul Quinto, ma quando Gentle ripeté la sua domanda, ritirò la Sua mente dal Suo obiettivo e gli occhi ripresero la loro animazione.
"Ho mandato il fuoco a colpire quella puttana," disse. Non era più il fulmine a parlare, ma le Sue molte gole.
"Perché?"
"Perché lei ti ha contaminato... ti ha fatto desiderare l'amore..."
"È un male?"
"Con l'amore non puoi costruire le città," disse il Dio. "Non puoi eseguire grandi opere. E una debolezza."
"E Nisi Nirvana?" disse Gentle. "Anche quella è una debolezza?"
Cadde in ginocchio e posò le sue mani fantasma sul terreno. Qui non aveva forza, altrimenti avrebbe cominciato a scavare. Né il suo spirito poteva penetrare il terreno. La stessa barriera che lo escludeva dallo stomaco di suo Padre lo tratteneva dal guardare negli inferi del suo Dominio. Ma poteva fare domande.
"Chi ha detto quelle parole, Padre?" chiese. "Chi ha detto: Nisi Nirvana?"
"Dimentica di aver sentito queste parole," rispose Hapexamendios. "La troia è morta. È finita."
Nella sua frustrazione Gentle strinse i pugni e colpì la terra.
"Là non ci sono altri che io," continuarono le molte gole. "La mia carne è ovunque. La mia carne è il mondo, e il mondo è la mia carne..."
Quando il fuoco apparve nel Quarto, Sua Rozzezza si trovava sul Monte di Lipper Bayak: aveva terminato la sua danza trionfale, e era seduto ai confini del suo cerchio in attesa che i curiosi uscissero dalle loro case e salissero per interrogarlo. Come Chicka Jackeen, immaginò che si trattasse di una qualche stella di annunciazione, inviata per segnalare la vittoria, e si alzò nuovamente per salutarla. Non fu il solo. Sul Monte, sotto a lui, c'erano molte persone che avevano individuato il bagliore sopra lo Jokalaylau e stavano applaudendo lo spettacolo che si avvicinava. Quando passò sopra di loro portò a Vanaeph un breve mezzogiorno, prima di proseguire per la sua strada. Illuminò allo stesso modo Patashoqua, poi volò fuori dal Dominio attraverso una nebbia che era appena apparsa dietro la città, creando il primo punto di passaggio tra il Dominio dei cieli verde dorati e quello dei cieli blu.
Due banchi di nebbia simili sì erano formati a Clerkenwell, uno a sud-est di Gamut Street e l'altro a nord-ovest; entrambi contrassegnavano le vie d'accesso al Dominio appena riconciliato. Fu quest'ultimo a divenire accecante, quando il fuoco proveniente dal Quarto lo percorse. Lo spettacolo non rimase senza testimoni. Nelle vicinanze c'erano diversi spettri, e anche se non avevano idea di che cosa stesse accadendo, avvertirono un pericolo e si ritirarono davanti al bagliore, ritornando nella casa per lanciare l'allarme. Ma furono troppo lenti. Prima che avessero percorso metà di Gamut Street, la nebbia si divise e il fuoco dell'Imperscrutato apparve nelle strade buie di Clerkenwell.
Il primo a vederlo fu Monday, mentre abbandonava il lieve conforto della luce delle candele e ritornava al gradino. Quel che rimaneva dell'orda di Sartori stava berciando sgangheratamente nell'oscurità all'esterno, ma quando egli uscì sulla soglia per allontanarli, l'oscurità divenne luce.
Dalla sua postazione in cima alla scala, Jude vide Celestine premere le sue labbra contro quelle del figlio, e poi con forza sorprendente la vide sollevarlo di peso e gettarlo fuori dal cerchio. L'uomo venne scosso dall'impatto, poi cominciò ad alzarsi e a voltarsi verso sua madre. Ma era troppo tardi perché riprendesse il suo posto; il fuoco era arrivato.
La finestra esplose come una nube lucente e il bagliore riempì la stanza. Jude cadde a gambe levate, ma si afferrò alla balaustra in tempo per vedere Sartori proteggersi il viso dall'olocausto, mentre la donna nel cerchio apriva le braccia per accoglierlo. Celestine venne immediatamente consumata, ma il fuoco parve inappagato, e se la distanza non fosse stata tanto grande sarebbe andato a radere al suolo la casa. Continuò a diffondersi per la stanza, demolendo le pareti. Continuò e si diresse verso la nebbia che Clerkenwell vantava quella notte.
"Che cosa cazzo era?" chiese Monday nell'atrio al piano inferiore.
"Dio," rispose Jude.
Nel Primo, Hapexamendios alzò la sua testa deforme. Anche se non aveva bisogno di mettere insieme le visioni che brillavano nel Suo cranio per vedere cosa stava accadendo nel Suo Dominio -aveva occhi dovunque - certi ricordi del corpo che era un tempo stato la sua unica residenza lo fecero ora voltare, in qualche modo, e guardare dietro di sé.
"Che cos'è quello?" chiese.
Gentle non poteva ancora vedere il fuoco, ma poteva sentire i sussurri del suo approssimarsi.
"Che cos'è quello?" chiese nuovamente Hapexamendios.
Senza attendere una risposta, il Dio iniziò febbrilmente a disfare la sua sembianza, cosa che Gentle aveva sia temuto sia sperato. Temuto, perché il fuoco che era stato emesso dal corpo del Dio senza dubbio sarebbe ritornato a infrangersi sul Dio stesso per cui, se il corpo divino fosse stato disfatto troppo velocemente, il fuoco non avrebbe avuto dove scaricarsi. E sperato, perché solo se il corpo si fosse disfatto. Gentle avrebbe avuto la possibilità di intravedervi al centro Pie. La barriera che proteggeva la forma di suo Padre si ammorbidi mentre il Dio era distratto dalle complicazioni dell'opera di smantellamento, e Gentle tentò con la mente di insinuarsi nel corpo del Padre, ma nonostante tutta la Sua perplessità Hapexamendios non poteva essere penetrato con tanta facilità. Così, quando Gentle si avvicinò, una volontà troppo potente prese possesso di lui.
"Che cos'è quello?" domandò per la terza volta il Dio.
Sperando di guadagnare ancora qualche secondo, Gentle rispose dicendo la verità.
"L'Imagica è un cerchio," disse.
"Un cerchio?"
"Questo è il tuo fuoco, Padre. Questo è il tuo fuoco, e sta tornando indietro."
Hapexamendios non rispose a parole. Comprese immediatamente il significato di ciò che gli era stato detto, e rilasciò immediatamente la sua presa su Gentle in modo da riuscire a sciogliersi.
Il corpo sgraziato iniziò a dissolversi, e in mezzo a esso Gentle vide nuovamente Pie. Questa volta, fu a sua volta scorto dal mystif. Le sue fragili membra si agitarono per aprire nel caos un varco tra di loro, ma quando Gentle riuscì finalmente a liberarsi dalla custodia di suo Padre, il terreno sotto Pie'oh'pah divenne instabile. Il mystif allungò le braccia per appoggiarsi al corpo che lo sovrastava, ma quest'ultimo stava disfacendosi troppo velocemente. Il terreno si aprì come una tomba, e con un ultimo, disperato sguardo verso Gentle, il mystif affondò.
Gentle levò la testa con un grido, ma il suono che emise venne coperto da quello di suo Padre, il quale quasi imitando il Figlio aveva gettato la testa all'indietro. Ma il Suo fu un grido di collera, piuttosto che di dolore, lanciato mentre si torceva e agitava nel tentativo di liberarsi il più presto possibile della maschera che vestiva.
Il fuoco era ora dietro di Lui. Quando arrivò, Gentle credette di vedere nella fiamma il viso della madre, formato dalle ceneri, con gli occhi e la bocca aperti mentre tornava a incontrare il Dio che l'aveva violentata, respinta e infine uccisa. Fu un attimo, non di più, e poi il fuoco raggiunse il suo creatore, come un giudizio assoluto.
Lo spirito di Gentle si allontanò dalla conflagrazione con un impulso del pensiero, ma Suo Padre (il mondo la Sua carne, la carne il Suo mondo) non poté sfuggire. La sua testa di feto si spaccò, e il fuoco consumò i cocci mentre volavano, la fiamma cremò il Suo cuore e le Sue viscere e invase le Sue membra deformi, bruciandole fino all'ultimo dito della mano e del piede.
Le conseguenze per la Sua città furono immediate e devastanti. Da un'estremità all'altra del Dominio, ogni strada tremò quando il crollo cominciò a diffondersi dal luogo in cui la causa prima di ogni cosa era caduta. Gentle non aveva nulla da temere da questa dissoluzione, ma la visione lo atterrì comunque. Era suo Padre che veniva disfatto, e non gli procurava né piacere né soddisfazione vedere annaspare e sanguinare il corpo da cui era nato. Le torri imperiose della metropoli cominciarono a vacillare mentre i loro ornamenti precipitavano in una pioggia rococò e i loro archi, rinunciando all'illusione della pietra, cadevano come carne. Le strade si sollevarono e si tramutarono in carne; le case gettarono a terra i loro tetti ossuti. Nonostante intorno a lui tutto crollasse, Gentle rimase vicino al luogo in cui suo Padre era stato consumato, nella speranza di trovare ancora Pie'oh'pah in quel vortice. Ma sembrava che l'ultimo atto volontario di Hapexamendios fosse stato proprio quello di negare agli amanti la possibilità di un ricongiungimento. Aveva spalancato la terra e sotterrato il mystif nell'abisso della Sua distruzione, sigillandolo con la Sua volontà per impedire a Gentle di ritrovarlo.
Al Riconciliatore non rimaneva che lasciare la città alla sua distruzione. Mentre volava, ciò che stava accadendo gli si presentò in tutta la sua enormità. Se anche ogni corpo vivente che aveva vissuto sulla terra fosse stato lasciato marcire qui nel Primo, l'insieme delle loro carni non avrebbe neppure potuto avvicinarsi alla massa carnea della città. E questa carogna non sarebbe marcita nel terreno, la sua decomposizione non avrebbe dato alimento a una nuova generazione di esistenze. La carogna era il terreno, era la vita. Con la sua scomparsa, sarebbe rimasta solo putrescenza. Un Dominio di lordura, avvelenato sino alla fine del tempo.
Davanti a lui c'era ora la nebbia che divideva i confini della città dal Quinto. Gentle l'attraversò, tornando con gratitudine alle modeste strade di Clerkenwell. Gli sembrarono naturalmente grigie, dopo i bagliori della metropoli che aveva appena lasciato. Ma sapeva altresì che l'aria conteneva la dolcezza delle foglie d'estate, anche se non poteva sentirne l'odore, e già echeggiava il suono di benvenuto di un motore proveniente da Holborn o Gray's Inn Road: un tipo svelto che, avendo capito che il peggio era passato, già se ne tornava ai suoi affari. A quell'ora era improbabile che fossero affari legali. Ma Gentle augurò del bene a quell'autista, anche nel suo crimine. Il Dominio era stato salvato sia per i ladri sia per i santi.
Non indugiò sulla soglia di passaggio, ma si diresse con tutta la velocità che gli permettevano i suoi pensieri al numero 28 e verso il corpo ferito che ancora voleva disperatamente continuare a vivere, là, in fondo alle scale.
In cima alle scale, dal canto suo, Jude non aveva aspettato che il fumo si diradasse per entrare nella Stanza della Meditazione. Nonostante un grido di avvertimento da parte di Clem, era salita nelle tenebre per cercare Sartori, augurandosi che fosse sopravvissuto. Le sue creature non ci erano riuscite. I loro cadaveri si stavano ancora contorcendo vicino alla soglia, intatti dall'esplosione, pensò, ma abbattuti dalla fine del loro evocatore. Lo trovò senza difficoltà. Giaceva presso il punto in cui era stato gettato da Celestine, il corpo fermo nell'atto di girarsi verso il cerchio.
Era stata la sua disfatta. Il fuoco che aveva portato sua madre all'oblio aveva bruciato ogni sua parte. Le ceneri dei suoi vestiti si erano fuse con la schiena coperta di vesciche; i capelli riarsi sul cuoio capelluto, il viso cotto ben oltre il grado necessario per rendere tenera la carne. Ma come suo fratello, che giaceva a brandelli al piano inferiore, anche Sartori rifiutava di lasciare la vita. Le sue dita si afferravano alle tavole, le sue labbra si muovevano ancora, scoprendo denti luminosi quanto il sorriso di un teschio. I suoi nervi erano ancora forti. Quando i suoi occhi iniettati di sangue scorsero Jude, riuscì a spingersi in piedi, ma il suo corpo si rovesciò sulla spina dorsale carbonizzata, ed egli usò la forza della sua agonia per trasmettere energia alla mano che afferrò Jude, spingendola giù, accanto a lui.
"Mia madre..."
"È andata."
Ci fu stupore sul suo viso. "Perché?" disse, scosso dalle convulsioni. "Sembrava... volerlo. Perché?"
"Voleva essere presente quando il fuoco avrebbe colpito Hapexamendios," disse Jude.
Lui scosse la testa, non comprendendo il significato di tutto questo.
"Come è possibile?" mormorò.
"L'Imagica è un cerchio," disse lei. Lui studiò il suo viso, cercando di capire. "Il fuoco è tornato da colui che l'ha originato."
Allora cominciò a farsi strada in Sartori la comprensione di quel che Jude gli stava dicendo. Pur nella sua agonia, provò ora un dolore più grande.
"E lui, è scomparso?" disse.
Lei stava per dire: me lo auguro, ma tenne per se quel sentimento, e si limitò ad annuire.
"E anche mia madre?" continuò Sartori. Il tremore si calmò; come anche la sua voce, che già era fragile. "Sono rimasto solo," disse.
L'angoscia di queste ultime parole era infinita, e lei desiderava confortarlo. Aveva paura di toccarlo perché temeva di provocargli un dolore ancora maggiore, ma forse ignorarlo era peggio. Con estrema delicatezza pose la sua mano su quella di lui. "Non sei solo," disse. "Sono qui io."
Lui non notò il suo tentativo di consolarlo; forse non la udì nemmeno. I suoi pensieri erano altrove.
"Non avrei mai dovuto toccarlo," disse piano. "Un uomo non dovrebbe mettere le mani sul suo stesso fratello."
Mentre sussurrava queste parole, dal piano inferiore si udì provenire un lamento, seguito da un grido di pura gioia da parte di Clem e poi dalle esclamazioni estatiche di Monday: "Capo! Capo, sei vivo, Capo!"
"Lo senti?" disse Jude a Sartori.
"Sì..."
"Credo che dopotutto tu non l'abbia ucciso."
Intorno alla sua bocca apparve uno strano tic, e dopo un po' lei si rese conto che erano i resti di un sorriso. Pensò che fosse piacere perché Gentle era sopravvissuto, ma la sua ragione era più amara.
"Questo non mi salverà ora," disse.
La sua mano, posata sullo stomaco, iniziò a massaggiarne i muscoli, dando strattoni tanto violenti che il corpo iniziò a venire scosso dagli spasmi. Dalle sue lacrime colò del sangue e lui mosse la sua mano come per nasconderlo. Poi parve sputare il suo sangue nella mano, se la tolse dal viso e ne offrì l'orrendo contenuto a Jude.
"Prendilo," disse, aprendo la mano.
Jude sentì qualcosa caderle nella mano. Non guardò però il suo regalo, ma rimase con gli occhi fissi sul viso dell'uomo, mentre lui allontanava lo sguardo, riportandolo verso il cerchio. Lei si rese conto che lui stava guardando lontano da lei per l'ultima volta, e cominciò a richiamarlo. Invocò il suo nome; lo chiamò amore; disse che non aveva mai voluto abbandonarlo e che non lo avrebbe mai più fatto, se solo fosse rimasto. Ma le sue erano parole sprecate. Quando gli occhi di Sartori trovarono il cerchio, la vita uscì da loro, e l'ultima cosa che videro non fu lei, ma il luogo in cui era stato concepito.
In mano, coperto dal sangue delle viscere e della gola, Jude si trovò l'uovo blu.
Dopo un po' si alzò e uscì sul pianerottolo. Il punto alla base delle scale in cui si era sdraiato Gentle era vuoto. Clem stava in piedi alla luce delle candele con il viso rigato di lacrime e un largo sorriso. Quando Jude scese le scale, alzò lo sguardo su di lei.
"Sartori?" chiese.
"È morto."
"E Celestine?"
"E andata," disse lei.
"Ma è tutto finito," disse Hoi Polloi. "Vivremo."
"Davvero?"
"Sì, davvero," disse Clem. "Gentle ha assistito alla distruzione di Hapexamendios."
"Dov'è Gentle?"
"È uscito," disse Clem. "Ha abbastanza vita dentro di sé..."
"... per un'altra vita?"
"Per altre venti, quel bastardo," fu la risposta di Tay.
Raggiungendo l'ultimo gradino lei gettò le braccia intorno ai protettori di Gentle e uscì sugli scalini. Gentle era in mezzo alla strada, avvolto in uno dei lenzuoli di Celestine. Monday era al suo fianco, e lui era appoggiato al ragazzo, mentre fissava l'albero che cresceva davanti al numero 28. Il fuoco di Hapexamendios aveva bruciato gran parte del suo fogliame, lasciando i rami nudi e anneriti. Ma c'era una brezza che agitava le foglie sopravvissute, e dopo un così lungo periodo di immobilità anche questi brandelli di vento erano benvenuti: erano la prova che l'Imagica era sopravvissuta ai suoi pericoli e stava nuovamente respirando.
Jude esitò a unirsi a lui, pensando che forse preferiva non interrompere quei momenti di meditazione. Ma dopo mezzo minuto lo sguardo di Gentle cadde su di lei. Il sorriso del Maestro, anche se per vederlo c'erano solo la luce delle stelle, e gli ultimi lacerti di fiamma al piano superiore, era luminoso come sempre, e come sempre invitante. Lei scese dal gradino, ma mentre si avvicinava vide anche che quel sorriso era debole, e che le ferite sul viso di lui erano più profonde di semplici tagli.
"Ho fallito," disse.
"L'Imagica è integra," rispose lei. "Questo non è un fallimento."
Lui guardò lontano, lungo la strada. L'oscurità era piena di agitazione.
"I fantasmi sono ancora qui," disse. "Ho giurato loro che avrei trovato una via d'uscita e ho fallito. È stato solo per questo che sono andato con Pie, per trovare una via d'uscita per Taylor..."
"Forse non esiste," intervenne una terza voce.
Clem era apparso sulla porta, ma era Tay a parlare.
"Ti ho promesso una risposta," gli disse Gentle.
"E l'hai trovata. L'Imagica è un circolo, e non c'è modo di uscirne. Andiamo semplicemente in tondo all'infinito. Be', non è tanto male, Gentle. Abbiamo ciò che abbiamo."
Gentle alzò la mano dalla spalla di Monday e si allontanò dall'albero, e da Jude, e dagli angeli sulla porta. Quando zoppicò in mezzo alla strada, la testa piegata, mormorò a Tay una risposta con voce troppo bassa per tutti, tranne che per l'udito di un angelo.
"Non basta," disse.
61
I
Per i vivi che abitavano in Gamut Street, i giorni che seguirono gli eventi di quella Notte del Solstizio furono strani quanto tutto ciò che l'aveva preceduta. Il mondo che tornava alla vita intorno a loro pareva totalmente all'oscuro del fatto che la sua esistenza era stata in pericolo, e se ora avvertiva un qualche cambiamento nella sua condizione, nascose molto bene quei sospetti. I monsoni e le ondate di calore che avevano preceduto la Riconciliazione vennero sostituiti la mattina seguente dalle pioggerelle e dal tiepido sole tipici di un'estate inglese. La moderazione del tempo fu il modello per il comportamento pubblico nelle settimane seguenti. Le esplosioni di irrazionalità che avevano trasformato in precedenza ogni incrocio e ogni angolo di strada in un piccolo campo di battaglia scomparvero all'improvviso; i nottambuli che Monday e Jude avevano visto vagare alla ricerca di una rivelazione non vagavano più osservando le stelle con curiosità.
In ogni città che non fosse Londra, forse i misteri ora presenti nelle sue strade sarebbero stati scoperti e celebrati. Se nebbie come quelle che c'erano a Clerkenwell fossero apparse a Roma, il Vaticano ne avrebbe parlato entro una settimana. Se fossero apparse a Città del Messico, i poveri le avrebbero attraversate ancora più velocemente, disperatamente alla ricerca di una vita migliore nel mondo al di là di esse. Ma l'Inghilterra; oh! l'Inghilterra. Non aveva mai avuto molto interesse per il misticismo, e con tutti i suoi evocatori e maghi (tranne i più deboli, uccisi dalla Tabula Rasa) non c'era nessuno che potesse iniziare a liberare le menti chiuse da dogmi e utilitarismi.
Le nebbie non passarono però del tutto inosservate. Le forme di vita animale della città sapevano che qualcosa stava accadendo, e vennero a Clerkenwell ad annusare. Ritornarono i cani randagi che si erano riuniti nei pressi di Gamut Street quando erano arrivati gli spettri per venire poi dispersi dalle orde di Sartori, i nasi all'inseguimento di un qualche odore piccante. Vennero anche i gatti a miagolare sugli alberi al tramonto, curiosi ma noncuranti. Ci furono anche visite di api e di uccelli, che nelle tre notti seguenti la Notte del Solstizio si riunirono nelle stesse incredibili quantità che Monday e Jude avevano già potuto costatare al Rifugio. In tutti questi casi i branchi, gli sciami e le greggi scomparvero dopo un po', avendo scoperto la fonte dei profumi e del magnetismo che li avevano guidati fin lì, per andare nel Quarto a vivere una vita sotto cieli differenti.
Ma anche se non ci fu alcun traffico di bipedi verso il Quarto, ce ne fu certamente parecchio nella direzione opposta. Dopo poco più di una settimana dalla Riconciliazione, Sua Rozzezza si presentò sulla soglia del numero 28, e chiese a Clem e Monday di vedere il Maestro. Entrò in una casa assai più comoda del suo alloggio a Vanaeph, arredata com'era da una serie di recenti furti da parte di Monday e Clem. Ma l'atmosfera casalinga non era del tutto vera. Anche se i corpi dei gek-a-gek erano stati rimossi e sepolti, insieme al loro evocatore, sotto l'erba alta di Shiverick Square; anche se la porta principale era stata riparata e le macchie di sangue lavate via; anche se la Stanza della Meditazione era stata ripulita e le pietre del cerchio avvolte a una a una in tela di lino e messe sotto chiave, la casa era impregnata da ciò che vi era accaduto: le morti, gli amori, le riunioni e le rivelazioni.
"Vivete in mezzo a una lezione di storia," disse Sua Rozzezza quando si mise a sedere accanto al letto in cui giaceva Gentle.
Il Riconciliatore era ormai in via di guarigione, ma nonostante i suoi straordinari poteri di recupero ne avrebbe avuto ancora per un po'. Ogni ventiquattr'ore dormiva venti ore o più e quando era sveglio si allontanava di poco dal suo materasso.
"Sembra che tu abbia visto qualche guerra, amico mio," disse Sua Rozzezza.
"Più di quante avrei voluto," rispose Gentle con voce stanca.
"Sento l'odore di qualcosa di Oviate."
"Gek-a-gek," disse Gentle. "Non ti preoccupare, non sono più qui."
"Sono riusciti a passare durante la cerimonia?"
"No. Le cose sono più complicate. Ma chiedi a Clem. Ti racconterà tutta la storia."
"Senza offesa per i tuoi amici," disse Sua Rozzezza, estraendo dalla tasca un vasetto di salsicce sott'aceto. "Ma preferirei sentirla da te."
"Ci ho già pensato fin troppo," disse Gentle. "Non voglio ricordarla più."
"Ma abbiamo vinto," disse Sua Rozzezza. "Questo non merita qualche festeggiamento?"
"Roz, festeggia con Clem. Io ho bisogno di dormire."
"Come vuoi. Come vuoi," disse Sua Rozzezza, ritirandosi verso la porta. "Ah, mi chiedevo... Ti dispiace se rimango qui qualche giorno? A Vanaeph ci sono molti gruppi che vogliono fare un bel giro del Quinto e io mi sono offerto per mostrar loro ciò che c'è da vedere. Ma dato che io stesso non so ancora cosa c'è..."
"Ti ospiterò volentieri," disse Gentle, "ma scusami se non sarò troppo assiduo."
"Non devi scusarti," disse Sua Rozzezza. "Ti lascio dormire."
Quella sera, Rozzezza, come gli aveva suggerito Gentle, tempestò Clem e Monday di tante domande finché non venne a conoscenza dell'intera storia.
"E allora, quando potrò conoscere la magnetica Judith?" chiese a racconto finito.
"Non so se la vedrai mai," gli rispose Clem. "Dopo che abbiamo sepolto Sartori non è tornata a casa."
"Dov'è?"
"Dovunque sia," disse malinconicamente Monday, "Hoi Polloi è con lei. La mia solita sfiga."
"Bene, ora ascolta," disse Sua Rozzezza. "Ho sempre saputo come trattare le signore. Facciamo un accordo. Tu mi fai vedere questa città, da cima a fondo, e io, per conto mio, ti farò conoscere qualche signora."
La mano di Monday uscì dalla tasca, dove si stava accarezzando la conseguenza dell'assenza di Hoi Polloi, e afferrò quella di Sua Rozzezza ancor prima che questi gliel'avesse offerta.
"Sei un gentiluomo e uno sporcaccione," gli disse Monday. "Amico, ti sei trovato una guida."
"E Gentle?" chiese Sua Rozzezza a Clem. "Anche lui si strugge per avere una compagnia femminile?"
"No. È soltanto stanco. Presto starà meglio."
"Dici?" replicò Sua Rozzezza. "Io non ne sono tanto sicuro. Sembra piuttosto un uomo che sarebbe più felice da morto che da vivo."
"Non dire così."
"Molto bene. Non l'ho detto. Ma è così, Clement. E lo sappiamo tutti."
Il vigore e il rumore che Sua Rozzezza portò nella casa servirono soltanto a sottolineare la verità di quell'osservazione. Mentre i giorni passavano e si trasformavano in settimane, ci furono pochi o punti cambiamenti nell'umore di Gentle. Si struggeva, come aveva detto Sua Rozzezza, e Clem iniziò a sentirsi come si era sentito durante il declino di Tay. Una persona amata se ne stava andando, e lui non poteva fare niente per impedirlo. Non c'erano nemmeno quei momenti di spensieratezza che c'erano stati con Tay, quando avevano ricordato i momenti belli, dimenticando il dolore. Gentle non voleva false consolazioni, risate, simpatia. Voleva solo restare nel suo letto, e diventare esile quanto le lenzuola tra cui giaceva. A volte, mentre dormiva, gli angeli lo udivano parlare in qualche altra lingua, come era già successo a Tay. Ma le cose che mormorava non avevano senso; sprazzi da una mente che divagava senza mappa o destinazione.
Sua Rozzezza rimase nella casa di Gamut Street per un mese: usciva all'alba con Monday e ritornava tardi, dopo una giornata trascorsa a vedere tutto quel che c'era da vedere e ad acquisire gli appetiti del nuovo Dominio. La sua capacità di stupirsi era senza confini, la sua brama di godere, robusta. Scoprì che gli piacevano il pasticcio di anguilla e Brahms, Speaker's Corner il mezzogiorno della domenica e i covi dello Squartatore a mezzanotte; le corse dei cani, il jazz, i panciotti di Saville Row e le donne in vendita dietro la stazione di King's Cross. Per quanto riguardava Monday, era chiaro dall'espressione che aveva ogni volta che ritornava, che aveva detto addio al dolore per l'abbandono di Hoi Polloi. Quando Sua Rozzezza annunciò alla fine che era giunta per lui l'ora di tornarsene al Quarto, il ragazzo lo ascoltò a testa bassa.
"Non ti preoccupare," gli disse Rozzezza. "Tornerò. E non sarò solo."
Prima di partire, si presentò al letto di Gentle con una proposta.
"Vieni con me nel Quarto," disse. "È ora che tu veda Patashoqua."
Gentle scosse il capo.
"Ma non hai visto il Merrow Ti' Ti'," protestò Sua Rozzezza.
"So cosa stai cercando di fare, Roz," disse Gentle. "E te ne sono molto grato, davvero, ma non voglio rivedere il Quarto."
"Bene, che cosa vuoi vedere?"
La risposta fu semplice: "Niente."
"Oh, adesso smettila Gentle," sbottò Sua Rozzezza. "Stai diventando noioso. Ti comporti come se avessi perso tutto. Non è così."
"Per me è così."
"Ritornerà. Vedrai."
"Chi tornerà?"
"Judith."
Gentle si mise quasi a ridere.
"Non è Judith che ho perso," disse.
Sua Rozzezza si rese conto in quel momento del suo errore, e si chiuse in un silenzio che non gli era solito. Tutto ciò che riuscì a dire fu:
"Ah..."
Per la prima volta da quando Sua Rozzezza gli era comparso accanto al letto un mese prima, Gentle guardò veramente il suo ospite.
"Roz," disse, "ti dirò qualcosa che non ho detto a nessun altro."
"Che cosa?"
"Quando ero nella Città di mio Padre..." Gentle fece una pausa, come se il desiderio di parlarne si stesse già allontanando da lui, poi ricominciò. "Quando ero nella Città di mio Padre ho visto Pie'oh'pah."
"Vivo?"
"In quel momento, sì."
"Oh, Gesù. Com'è morto?"
"Il terreno gli si è aperto sotto i piedi."
"Ma è terribile."
"Capisci ora perché tutto questo non mi sembra una vittoria?"
"Sì capisco. Ma, Gentle..."
"Non cercare più di convincermi, Roz."
"Ci sono tali cambiamenti nell'aria. Forse avvengono dei miracoli nel Primo, come ce ne sono a Yzordderrex. Non è impossibile."
Gentle studiò il suo tormentatore con gli occhi socchiusi.
"Non dimenticare che gli Eurhetemec erano nel Primo molto prima di Hapexamendios," continuò Sua Rozzezza, "E lì hanno fatto miracoli. Forse quei tempi sono ritornati. La terra non dimentica. Gli uomini dimenticano. I Maestri dimenticano. Ma la terra mai."
Si alzò in piedi.
"Vieni con me fino a un punto di passaggio," disse. "Andiamo a vedere di persona. Che male può esserci? Se le tue gambe non funzionano ti porterò in spalla."
"Non sarà necessario," disse Gentle, e buttando giù le coperte si alzò dal letto.
Anche se il mese di agosto doveva ancora cominciare, i primi due mesi dell'estate erano stati caratterizzati da eccessi tali che la stagione si era già bruciata prematuramente, e quando Gentle uscì in Gamut Street accompagnato da Rozzezza e Clem, trovò fuori dalla porta i primi freddi dell'autunno. Quarantott'ore dopo la Riconciliazione, Clem aveva trovato la nebbia che portava al Primo Dominio ma non vi era entrato. Dopo tutto quello che aveva sentito raccontare sulla città dell'Imperscrutato, non desiderava vederne gli orrori. Fu però felice di accompagnare i Maestri in quel luogo. Distava poco più di un chilometro dalla casa, nascosto in un chiostro dietro un palazzo di uffici vuoto: un banco di nebbia grigia alto poco più del doppio di un uomo, che rotolava nell'angolo d'ombra di un cortile vuoto.
"Lascia che io vada per primo," chiese Clem a Gentle. "Siamo ancora i tuoi guardiani."
"Avete fatto più che abbastanza," rispose Gentle. "Rimanete qui. ' Non ci vorrà molto."
Clem non contraddisse gli ordini, e si fece da parte per lasciare che i Maestri entrassero nella nebbia. Gentle aveva ormai attraversato i Domini molte volte, ed era abituato al breve disorientamento che accompagnava sempre questi passaggi. Ma nulla, nemmeno gli incubi sanguinosi che lo avevano tormentato dopo la Riconciliazione, avrebbero potuto prepararlo a ciò che lo attendeva dall'altra parte. Sua Rozzezza, uomo di reazioni immediate, vomitò quando dalla nebbia venne loro incontro l'odore di putrefazione, poi inciampò, e sebbene fosse deciso a non lasciare che il suo amico affrontasse il Primo da solo, si coprì gli occhi dopo un solo sguardo.
Il Dominio era marcio da un orizzonte all'altro. Dovunque e era marciume, e ancora marciume. Ce n'erano laghi suppuranti, e colline ulcerose. Sopra di loro, nei cieli che aveva appena intravisto quando aveva attraversato la città di suo Padre, Gentle vide nuvole del colore di vecchi lividi che celavano parzialmente due lune giallastre, la cui luce scendeva su un ammasso di lordura tanto atroce che anche il nibbio più affamato del Kwem sarebbe morto di fame piuttosto che mangiarne.
"Roz, questa era la Città di Dio," disse Gentle. "Questo era mio Padre. Questo era l'Imperscrutato."
In un improvviso attacco di collera, afferrò le mani di Sua Rozzezza, che il Maestro teneva strette sul viso.
"Guarda, maledizione, guarda! Ora voglio sentirti parlare di prodigi, Roz!"
Quando lui e Gentle emersero dal punto di passaggio, Sua Rozzezza non ritornò alla casa, preferendo allontanarsi nell'oscurità mormorando qualche parola di scusa, sostenendo che aveva bisogno di stare sull'erba di casa sua per un po' e che sarebbe tornato una volta rimessosi. Infatti riapparve al numero 28 tre giorni più tardi, ancora turbato, ancora un po' vergognoso, per scoprire che Gentle non era ritornato a letto ma era in piedi. L'umore del Riconciliatore era spiccio più che allegro. Il suo letto, spiegò a Rozzezza, non era più il rifugio che era stato prima. Non appena chiudeva gli occhi vedeva la carneficina del Primo in ogni atroce dettaglio, e riusciva ormai a dormire solo dopo essersi stancato a tal punto che appoggiata la testa al cuscino l'oblio giungeva immediatamente senza che la sua mente avesse il tempo di riflettere su ciò cui aveva assistito.
Per fortuna Rozzezza aveva portato un diversivo sotto forma di un gruppo di otto turisti (lui preferiva dire escursionisti) da Vanaeph che si erano affidati a lui affinché li introducesse ai riti e alle rarità del Quinto Dominio. Prima che la gita cominciasse, però, essi erano ansiosi di porgere i propri omaggi al grande Riconciliatore, e lo fecero con una serie di discorsi fin troppo elaborati che lesserò ad alta voce prima di offrire a Gentle i regali che gli avevano portato: carni affumicate, profumi, una piccola immagine di Patashoqua fatta con ali di zarzi e un libretto di poesie erotiche della sorella di Pluthero Quexos.
Il gruppo fu il primo dei tanti che Rozzezza accompagnò nelle settimane seguenti, ammettendo apertamente con Gentle che da questo nuovo lavoro stava ottenendo un profitto consistente. Il suo slogan era: Trascorrete una Giornata Santa nella Città di Sartori, e più erano i clienti soddisfatti che tornavano a Vanaeph con le storie dei pasticci di anguilla e di Jack lo Squartatore, più erano quelli che si prenotavano per l'escursione successiva. Naturalmente Sua Rozzezza sapeva che il boom non sarebbe durato. Tra breve i tour operator professionisti di Patashoqua avrebbero cominciato a entrare in affari e lui non sarebbe stato in grado di competere con i loro attraenti pacchetti, tranne che per un aspetto particolare: era l'unico a poter garantire un'udienza, per quanto breve, con il Maestro Sartori in persona.
Gentle si rendeva conto che stava arrivando il momento in cui il Quinto avrebbe dovuto affrontare il dato incontrovertibile della Riconciliazione, che gli piacesse o no. I primi pochi turisti da Vanaeph e Patashoqua potevano essere ignorati; ma quando sarebbero venute le loro famiglie, e le famiglie delle loro famiglie, creature in forme, dimensioni e quantità tali da attirare attenzione, la gente di questo Dominio non avrebbe più potuto ignorarli. Tra non molto tempo Gamut Street sarebbe diventata un'autostrada sacra, con viaggiatori a percorrerla in entrambi i sensi. Quando ciò fosse accaduto, vivere ancora in quella casa sarebbe diventato impossibile. Lui, Clem e Monday avrebbero dovuto abbandonare il numero 28, lasciando che diventasse un santuario.
Quando quel giorno fosse arrivato (e sarebbe arrivato presto) Gentle sarebbe stato costretto a prendere una decisione importante. Doveva cercare qualche eremo in Inghilterra, o lasciare l'isola per dirigersi in un paese dove nessuna delle sue vite precedenti lo aveva mai portato? Di una cosa era sicuro: non sarebbe ritornato nel Quarto, né in nessun altro Dominio di là da esso. Anche se era vero che non aveva mai visto Patashoqua, era esistita una sola persona insieme a cui aveva voluto vederla, e quella persona non c'era più.
I tempi non erano meno strani e difficili per Jude. Aveva deciso di abbandonare la gente di Gamut Street su due piedi, pensando che al momento giusto sarebbe tornata. Ma più ne rimaneva lontana, più diventava difficile ritornare. Fino alla morte di Sartori non si era resa conto di quanto lo avrebbe pianto. Tutto ciò che provava era un senso di perdita. Si svegliava notte dopo notte nel piccolo appartamento che lei e Hoi Polloi avevano affittato insieme (quello vecchio era troppo pieno di ricordi) in lacrime per lo stesso terribile sogno: stava salendo quella maledetta scala in Gamut Street, cercando di raggiungere Sartori che giaceva in fiamme al piano superiore, ma nonostante tutti i suoi sforzi non riusciva ad avanzare di un solo passo. E quando Hoi Polloi la svegliava, sulle sue labbra c'erano sempre le stesse parole:
"Resta con me. Resta con me."
Sebbene se ne fosse andato per sempre, le aveva lasciato un ricordo vivente, che, quando arrivarono i mesi dell'autunno, iniziò a farle sentire la sua presenza imperiosamente, tenendola sveglia con i suoi calci, quando non erano gli incubi a farlo. Non le piaceva l'aspetto che avevano allo specchio lo stomaco gonfio e lucente, i seni turgidi e delicati - ma Hoi Polloi era lì per confortarla e tenerle compagnia ogni volta che era necessario. Durante quei mesi la ragazza fu tutto ciò che Jude avrebbe potuto desiderare: leale, pratica e desiderosa di imparare. Anche se al principio le abitudini del Quinto erano per lei un mistero, quelle che considerava stranezze le divennero ben presto familiari, e ci si affezionò. Ma non era una situazione che poteva durare a tempo indeterminato. Se rimanevano nel Quinto e Jude partoriva lì, che cosa poteva promettere a quel bimbo? Di crescere e essere educato in un Dominio che forse un giorno futuro avrebbe potuto cominciare ad apprezzare i miracoli, ma che nel frattempo avrebbe ignorato e respinto le qualità straordinarie con cui certo era stato benedetto?
A metà ottobre Judith aveva preso la sua decisione. Avrebbe lasciato il Quinto, con o senza Hoi Polloi, e avrebbe trovato nell'Imagica un qualche paese in cui al bambino sarebbe stato permesso di crescere al meglio. Per intraprendere questo viaggio, sarebbe dovuta naturalmente ritornare a Gamut Street o nelle vicinanze, e per quanto quella non fosse una prospettiva particolarmente allettante, era meglio agire in fretta, stabilì, prima che le molte notti insonni si facessero sentire, e lei diventasse troppo debole. Parlò del suo progetto a Hoi Polloi, che dichiarò di essere disposta ad andare dovunque Jude desiderasse dirigersi. Fecero dei veloci preparativi e quattro giorni più tardi lasciarono l'appartamento per l'ultima volta, con una piccola collezione di valori da impegnare nel Quarto.
Era una notte fredda e la luna, quando si levò, mostrava un alone brumoso. Sotto questa luce, le strade intorno a Gamut Street erano rese iridescenti dalle primi incisioni del gelo. Per desiderio di Jude andarono prima verso Shiverick Square, affinché lei potesse porgere l'ultimo saluto a Sartori. La sua tomba e quelle degli Oviati erano state ben nascoste da Monday e Clem, e le ci volle un po' di tempo per trovare il punto in cui lui era sepolto. Ma lo trovò, e vi rimase venti minuti mentre Hoi Polloi aspettava alla cancellata. Anche se nelle strade vicine c'erano degli spettri, sapeva che lui non si sarebbe mai unito a loro. Non era nato, ma era stato creato: l'essenza della sua vita era stata rubata. L'unica esistenza che lo attendeva dopo la morte era il ricordo di lei, e il bambino. Non pianse per questo, e nemmeno per la sua assenza. Aveva fatto tutto ciò che poteva, piangendo e pregandolo di rimanere. Ma disse alla terra che aveva amato ciò che ora ricopriva, e le affidò il compito di confortare Sartori nel suo sonno privo di sogni.
Poi si allontanò dalla tomba e insieme a Hoi Polloi andò alla ricerca del punto di passaggio per il Quarto. Lì sarebbe stato giorno, una giornata luminosa, e lei si sarebbe chiamata con un altro nome.
Quella notte il numero 28 era rumoroso a causa di una festa in onore di Dermott, che quel pomeriggio era stato rilasciato di prigione, avendo scontato una condanna di tre mesi per un furtarello insignificante, e si era presentato alla porta con Carol, Benedict e diverse casse di whisky rubato per brindare al suo rilascio. La casa era ormai un magazzino di tesori: erano tutti regali offerti al Maestro da parte degli escursionisti di Roz, e non c'era fine alle ebbre sciocchezze ispirate da questi manufatti, molti dei quali del tutto incomprensibili. Gentle si sentiva arguto quanto Dermott, se non di più. Dopo tante settimane di astinenza, la minima quantità di whisky bastava a fargli girare la testa: resistette perciò ai tentativi di Clem di includerlo in una conversazione seria, nonostante quest'ultimo insistesse che la questione era urgente. Solo dopo numerosi sforzi Clem riuscì a condurlo in un posto, più tranquillo della casa, dove i suoi angeli gli dissero che Judith si trovava nelle vicinanze. La notizia lo rese un po' più sobrio.
"Sta venendo qui?" chiese.
"Non credo," disse Clem, passandosi la lingua avanti e indietro sulle labbra come se il sapore di Jude aleggiasse ancora su di esse. "Ma è vicina."
Gentle non aveva bisogno di ulteriori sollecitazioni. Andò in strada e Monday lo seguì. Non c'erano creature viventi in vista, solo gli spettri, indolenti come al solito, la cui tristezza era resa ancora più evidente dal rumore di baldoria che proveniva dalla casa.
"Non la vedo," disse Gentle a Clem, che lo aveva seguito sulla soglia. "Sei sicuro che sia qui?"
Fu Tay a rispondere. "Pensi che non capisca quando Judy è vicina? Certo che sono sicuro."
"Da che parte?" volle sapere Monday.
Fu Clem a parlare, con cautela: "Forse non vuole vederci."
"Be', io voglio vedere lei," rispose Gentle. "Almeno per un drink, in nome dei vecchi tempi. Tay, da che parte?"
Gli angeli indicarono la direzione, e Gentle cominciò a correre lungo la strada, con Monday, bottiglia in mano, alle sue spalle.
La nebbia che portava nel Quarto aveva un aspetto invitante: una lenta onda di pallida foschia che girava e girava su se stessa, ma non si rompeva mai. Prima di entrarvi, Jude si prese qualche momento per guardare verso l'alto. Il Carro era sopra di lei. Non lo avrebbe più visto. Poi disse: "Basta con gli addii," ed entrò nella nebbia insieme a Hoi Polloi.
In quel mentre, Jude udì un suono di passi nel vicolo dietro a loro, e Gentle che la chiamava per nome. Sapeva che la loro presenza avrebbe potuto essere scoperta, e aveva ben istruito entrambe su come reagire. Nessuna delle due donne si voltò. Affrettarono semplicemente il passo e continuarono a camminare nella foschia che dapprima divenne più densa man mano che la attraversavano ma poi, dopo una dozzina di passi, iniziò a far filtrare la luce del giorno dell'altra parte, trasformando il suo freddo vischioso in sostanza aromatica. Gentle la chiamò ancora, ma davanti a loro ci fu della confusione che coprì il suo grido.
Nel Quinto, Gentle si fermò a un passo dalla nebbia. Aveva giurato a se stesso che non avrebbe più lasciato il Dominio, ma il drink che aveva tracannato aveva indebolito il suo proposito. I suoi piedi non vedevano l'ora di seguire Judith.
"Bene, Capo," esclamò Monday. "Andiamo o no?"
"Ci tieni?"
"Sì, ci tengo."
"Ti piacerebbe ancora mettere le mani su Hoi Polloi, vero?"
"Capo, io me la sogno. Ragazze con gli occhi storti, ogni notte."
"Ah, bene," disse Gentle. "Se stiamo inseguendo dei sogni, allora credo che ci sia una buona ragione per andare."
"Davvero?"
"Anzi, è l'unica ragione."
Afferrò la bottiglia di Monday e ne bevve un grande sorso.
"Andiamo, allora," disse, e insieme si gettarono nella nebbia, correndo su un terreno che si ammorbidiva e si illuminava mentre camminavano, e i lastroni di pietra diventavano sabbia, la notte diventava giorno.
I due videro le donne di sfuggita: due profili grigi stagliati contro il cielo color pavone. Poi le persero ancora. La luce del giorno divenne però più intensa, come anche il rumore di voci che aumentarono nel frastuono di una folla eccitata quando emersero dal punto di passaggio. Da ogni parte c'erano acquirenti, venditori e ladri, e le due donne stavano scomparendo nella ressa. Le seguirono con rinnovato fervore, ma la massa di gente cospirò per tenerli lontani dalle loro prede e dopo mezz'ora di vane rincorse che li riportarono alla nebbia e al frastuono dei commercianti, dovettero ammettere di essere stati battuti con abili manovre.
Ora Gentle era irritabile, e anziché ronzargli, la testa gli doleva.
"Sono scomparse," disse. "Lasciamo perdere."
"Merda."
"Gente che va, gente che viene. Non ci si può permettere di affezionarsi a nessuno."
"Troppo tardi," disse malinconicamente Monday. "Io l'ho fatto."
Gentle strizzò gli occhi guardando la nebbia, con le labbra increspate. Dall'altra parte c'era un freddo ottobre.
"Sai cosa?" disse dopo un po'. "Facciamo un giro a Vanaeph, e vediamo se riusciamo a trovare Sua Rozzezza. Forse ci può aiutare."
Monday era raggiante. "Capo, sei un eroe. Ti seguo."
Gentle si mosse in punta di piedi, cercando di orientarsi.
"Il problema è che non ho la più vaga idea di dove sia Vanaeph," sbottò.
Acciuffò il passante più vicino e gli chiese come poteva andare al Monte. Il tipo indicò sopra le teste della gente, lasciando che il Capo e il suo ragazzo si aprissero un varco fino ai bordi del mercato, dove riuscirono a vedere non Vanaeph ma la città murata che si trovava tra loro e il Monte di Lipper Bayak. Sul viso di Monday riapparve il suo ghigno, più ampio che mai; sulle sue labbra, il nome che aveva così spesso sospirato come in un incantesimo: "Patashoqua."
"Sì."
"L'abbiamo dipinta insieme sul muro, te lo ricordi?"
"Lo ricordo."
"Com'è dentro?"
Gentle stava guardando la bottiglia che aveva in mano, chiedendosi se la stravagante ilarità che provava sarebbe scomparsa con il mal di testa che la accompagnava.
"Capo?"
"Cosa?"
"Ho detto: com'è dentro?"
"Non lo so. Non ci sono mai stato."
"Be', allora perché non ci andiamo?"
Gentle diede la bottiglia a Monday, e sospirò; un sospiro pigro e sereno che terminò in un sorriso.
"Sì, amico mio," disse, "Credo che dovremmo."
II
Fu così che ebbe inizio l'ultimo pellegrinaggio attraverso l'Imagica del Maestro Sartori chiamato John Furie Zacharias, o Gentle, il Riconciliatore.
Non era stato affatto inteso come un pellegrinaggio, ma avendo promesso a Monday che avrebbero trovato la donna dei suoi sogni, egli non riuscì ad abbandonare il ragazzo e ritornare nel Quinto. La ricerca iniziò naturalmente a Patashoqua, in quei giorni più prospera che mai, in quanto la sua vicinanza al Dominio nuovamente riconciliato creava ogni giorno nuovi affari. Dopo essersi chiesto per quasi un anno come potesse essere la città, una volta entro le sue mura Gentle rimase inevitabilmente deluso, ma l'entusiasmo di Monday era spettacolare, e gli fece ricordare con vivezza il suo stesso stupore quando lui e Pie erano giunti per la prima volta nel Quarto.
Non riuscendo a rintracciare le donne nella città, si recarono a Vanaeph, nella speranza di trovare Sua Rozzezza. Gli venne detto che era in viaggio, ma un individuo dalla vista acuta affermò di aver visto due donne che corrispondevano alla descrizione di Jude e Hoi Polloi fare l'autostop ai lati dell'autostrada. Un'ora più tardi Gentle e Monday stavano facendo la stessa cosa, e fu così che ebbe inizio l'inseguimento che li avrebbe portati attraverso i Domini.
Per il Maestro fu un viaggio molto diverso da quelli che lo avevano preceduto. La prima volta che aveva percorso la stessa tappa, aveva viaggiato senza conoscere se stesso, senza riuscire a comprendere chi erano le persone che aveva incontrato e cos'erano i luoghi che aveva visto. La seconda volta, aveva volato come un fantasma alla velocità del pensiero tra i membri del Sinodo, ma la sua missione era troppo urgente per permettergli di apprezzare la miriade di prodigi che stava attraversando. Ma ora, finalmente, aveva sia il tempo sia la capacità per capire il senso del suo pellegrinaggio, e nonostante avesse iniziato il viaggio con riluttanza, cominciò ben presto a prendervi lo stesso gusto del suo compagno.
Le notizie sui cambiamenti di Yzordderrex si erano diffuse fino ai villaggi più piccoli, e la caduta dell'Impero dell'Autarca era ovunque motivo di gioia. Si erano anche diffuse le voci sulla guarigione dell'Imagica, e quando Monday raccontava alla gente da dove venissero lui e il suo tranquillo compagno (e lo raccontava a ogni piè sospinto), veniva loro offerto da bere e da mangiare in cambio di notizie del paradisiaco Quinto. Molti di quelli che facevano loro domande, sapendo che la porta verso quel mistero era finalmente aperta, progettavano di visitarlo, e volevano sapere quali regali dovevano portare con sé in un Dominio che era già tanto pieno di meraviglie. Quando veniva posta questa domanda, Gentle, solitamente silenzioso durante questi colloqui, rispondeva sempre: "Portate le storie delle vostre famiglie. Portate le vostre poesie. Portate le vostre barzellette. Le vostre ninnenanne. Fate capire a quelli del Quinto quali glorie ci sono qui."
Quando rispondeva in questo modo, la gente solitamente lo guardava di traverso, e gli rispondeva che le barzellette e le storie di famiglia non sembravano particolarmente gloriose. Ma Gentle rispondeva ancora: "Nel Quinto c'è gente come te. E la tua storia è il regalo più bello che il Quinto possa ricevere."
"Sai, se avessimo portato con noi un paio di mappe dell'Inghilterra, avremmo potuto guadagnare una fortuna," osservò un giorno Monday.
"Da quando ci importa dei soldi?" disse Gentle.
"Può darsi che a te non interessino, Capo," rispose Monday. "Personalmente, invece sono molto a favore."
Aveva ragione, pensò Gentle. Avrebbero potuto vendere già un migliaio di mappe, e stavano entrando soltanto nel Terzo. Mappe che sarebbero state copiate, le cui copie sarebbero state a loro volta copiate, e ognuno avrebbe inevitabilmente aggiunto qualcosa al disegno. Il pensiero di una tale proliferazione riportò Gentle alla sua stessa mano. Aveva lavorato raramente per uno scopo che non fosse il profitto, e nonostante tutto il lavoro svolto non aveva mai prodotto nulla il cui valore fosse durevole. Ma a differenza dei dipinti che aveva falsificato, le mappe non erano maledette dall'incombente esistenza di un originale finale. Esse crescevano durante la copiatura mentre le loro inaccuratezze venivano corrette, gli spazi vuoti riempiti, le legende riviste. E anche quando erano state fatte tutte le correzioni, fino ai minimi dettagli, non potevano ancora essere maledette dalla parola fine, perché il loro soggetto continuava a cambiare. I fiumi si allargavano e cambiavano corso, o si inaridivano del tutto; le isole emergevano e riaffondavano; anche le montagne si spostavano. Secondo la loro stessa natura, le mappe erano sempre lavori in corso, e Gentle decise dopo molti mesi di usare la sua mano per farne una.
Nel corso del loro viaggio incontrarono di tanto in tanto qualcuno che, ignaro del proprio pubblico, vantava qualche legame con il figlio più celebrato del Quinto, il Maestro Sartori, e che raccontava a Gentle e Monday di quel grand'uomo. Le storie erano diverse, specialmente quando si trattava del suo compagno. Alcuni dissero che aveva al suo fianco una donna bellissima; alcuni parlarono di un fratello, chiamato Pie; altri (pochi in realtà) raccontavano di un mystif. Al principio Monday fece fatica a tenere a freno la lingua senza rivelare la loro identità, ma Gentle aveva insistito sin dall'inizio che voleva viaggiare in incognito, e avendo giurato di serbare il segreto il ragazzo mantenne la parola. Rimase in silenzio mentre venivano raccontate storie pazzesche sulle imprese del Maestro: matrimoni celebrati sul soffitto; creste che spuntavano dove aveva dormito; donne rimaste incinte dopo aver bevuto dalla sua stessa tazza. In principio, il fatto di essere divenuto una fantasia dell'immaginazione popolare divertì Gentle, ma dopo un certo periodo questo fatto cominciò a pesare su di lui. Si sentiva come un fantasma in mezzo a queste versioni viventi di se stesso, invisibile tra gli ascoltatori che si erano riuniti per ascoltare le storie delle sue conquiste, i cui dettagli venivano arricchiti e abbelliti a ogni nuovo racconto. Gli era un po' di conforto il fatto di non essere il solo su cui circolavano storie simili. Nell'aria tra le orecchie e le lingue del popolo c'erano altre storie viventi, che venivano raccontate ai pellegrini quando chiedevano di Jude e Hoi Polloi: storie di donne miracolose. Dalla caduta di Yzordderrex era comparsa nei Domini una tribù nomade completamente nuova. Si aggiravano fra i Domini delle donne potenti, e i riti che esse avevano praticato solo in casa e nelle capanne venivano ora eseguiti all'aria aperta, sotto gli sguardi di tutti. Ma a differenza delle storie sul Maestro Sartori, la maggior parte delle quali erano pure invenzioni, Gentle e Monday capirono che le storie su queste donne avevano un fondamento di verità. Ad esempio nella provincia di Mai-Ké, che durante il primo pellegrinaggio di Gentle era stata una regione di terreni desertificati, trovarono campi verdi e benedetti dal primo raccolto in sei stagioni, e il tutto grazie a una donna che aveva fiutato il corso di un fiume sotterraneo, spingendolo in superficie con formule e suppliche. Nei templi di L'Himby una sibilla aveva scolpito su una lastra di pietra usando solo un dito e la saliva una rappresentazione della città come prevedeva che sarebbe stata entro un anno, e la sua profezia era stata tanto ipnotica che il suo pubblico era immediatamente uscito dal tempio e aveva abbattuto le brutture che sfiguravano la loro città. Nel Kwem - dove Gentle portò Monday sperando di incontrarvi Scopique - trovarono un lago le cui acque erano cristalline ma il cui fondo era nascosto dalla vita che vi dimorava, situato al posto della fossa poco profonda del Cardine. Gli animali che lo abitavano erano soprattutto uccelli, che si alzavano improvvisamente in stormi eccitati, perfettamente piumati e pronti per affrontare il cielo. Qui ebbero l'occasione di incontrare colui che aveva compiuto il miracolo, perché la donna che aveva creato quelle acque aveva preso dimora nell'annerito cartoccio del Palazzo del Kwem. Nella speranza di ricevere qualche indicazione su Jude e Hoi Polloi, Gentle si avventurò nelle ombre per trovare la creatrice di laghi, la quale rifiutò di farsi vedere ma rispose alle sue domande. No, non aveva visto una coppia di viaggiatrici come lui le aveva descritte, ma sì, poteva dirgli dove si erano recate. In questi giorni c'erano solo due direzioni per le donne che viaggiavano, spiegò: verso Yzordderrex o fuori da essa.
Gentle la ringraziò per questa informazione e le chiese se c'era qualcosa che potesse fare per lei. Lei gli rispose che non c'era nulla che volesse da lui personalmente, ma che sarebbe stata felice della compagnia del suo ragazzo per un'ora o due. Gentle uscì piuttosto imbarazzato e chiese a Monday se era disposto a provare l'abbraccio della donna. Monday accettò e lasciò che il Maestro trovasse dove sedersi vicino al lago generatore di uccelli mentre lui si avventurava nel boudoir della sua creatrice. Era la prima volta in tutta la vita di Gentle che una donna in cerca di attenzioni sessuali preferiva un altro a lui. Se mai aveva avuto bisogno della prova che la sua ora era giunta, adesso l'aveva.
Quando Monday riapparve (con il viso arrossato e le orecchie che gli ronzavano) due ore più tardi, trovò Gentle seduto in riva al lago, stanco ormai da tempo di lavorare alla sua cartina, circondato da diversi mucchietti di sassolini.
"Che cosa sono?" chiese il ragazzo.
"Ho contato le mie storie di donne," rispose Gentle. "Ognuno di questi sono cento donne."
C'erano sette cumuli.
"Tutte qui?" disse Monday.
"Sono tutte quelle che ricordo."
Monday si accovacciò accanto alle pietre.
"Scommetto che ti piacerebbe amarle di nuovo tutte quante," disse.
Gentle rimase a pensare per un po' e infine disse: "No, non credo. Il meglio l'ho già dato. È ora di lasciare spazio a uomini più giovani." Gettò la pietra che teneva in mano nel mezzo del lago brulicante.
"Prima che tu lo chieda," disse. "Quella era Jude."
Da allora in poi non vi furono altre deviazioni, né fu necessario ascoltare qua e là storie di donne. Sapevano dove erano andate Jude e Hoi Polloi. Dopo aver lasciato il lago, nel giro di poche ore si ritrovarono sulla via di Lenten. A differenza di tante altre cose, la strada non era cambiata. Era trafficata e ampia come sempre: una freccia che portava il suo percorso dritto nel cuore caldo di Yzordderrex.
62
I
Nel Quinto giunse l'inverno; non all'improvviso, ma senza incertezze. Halloween fu l'ultima occasione per la gente di godersi l'aria della notte senza cappotti, cappelli e guanti, e fu proprio allora che si notarono le prime puntate di londinesi in Gamut Street: erano festaioli che avevano preso sul serio lo spirito di Ognissanti, ed erano venuti a vedere se c'era qualcosa di vero nelle strane voci che avevano sentito sulla zona. Alcuni se ne andarono dopo pochissimo, ma i più coraggiosi tra loro rimasero a esplorare, e alcuni di essi si soffermarono davanti al numero 28, dove ebbero modo di spremersi le meningi sui disegni dell'ingresso, e di scrutare l'albero carbonizzato che celava la casa alle stelle.
Dopo quella sera il freddo aumentò e a novembre inoltrato le temperature furono talmente basse da tenere incollato al focolare anche il gatto più caloroso. Ma il flusso di visitatori in entrambe le direzioni non cessò. Notte dopo notte, normali cittadini si recavano a Gamut Street incrociandosi con gli escursionisti che venivano nella direzione opposta. Alcuni di quei cittadini divennero visitatori talmente regolari che Clem iniziò a riconoscerli, e vide il loro interesse divenire meno vago man mano che si rendevano conto che le sensazioni che provavano non erano sintomi di pazzia. C'erano prodigi da scoprire, e a poco a poco quegli uomini e quelle donne dovevano averne scoperto la provenienza, perché invariabilmente scomparivano. Altri, forse temendo di avventurarsi da soli nei punti dì passaggio, venivano insieme ad amici fidati, mostrando loro la strada come se fosse un vizio segreto, parlando sottovoce e poi ridendo con forza quando scoprivano che anche i loro cari vedevano le apparizioni.
La notizia si stava diffondendo. Ma questo fatto era l'unico piacere fornito da quei giorni e quelle notti fredde. Anche se Sua Rozzezza trascorreva sempre più tempo in casa e rappresentava una compagnia vivace, Clem sentiva molto la mancanza di Gentle. Non era stato affatto sorpreso dalla sua partenza improvvisa (aveva sempre saputo, prima ancora dello stesso Gentle, che il Maestro avrebbe lasciato il Dominio), ma ora la sua compagnia più sincera era rimasta l'uomo che gli abitava nella mente, e mentre si avvicinava il primo anniversario della morte di Tay l'umore di entrambi si incupì. La presenza di tante anime di vivi nella strada servì solo a rendere più infelici gli spettri che vi avevano abitato durante i mesi estivi, e il loro dolore era contagioso. Anche se Tay era stato felice di passare del tempo con Clem durante i preparativi per la grande opera, il tempo di fare gli angeli era finito anche per loro, e Tay sentiva la stessa esigenza di quei fantasmi che vagavano fuori dalla casa: scomparire.
Quando giunse dicembre, Clem iniziò a chiedersi per quante altre settimane avrebbe potuto reggere quella situazione, visto che gli pareva che ogni ora aumentasse dentro di lui la disperazione del fantasma. Dopo molte discussioni con se stesso decise che Natale avrebbe segnato l'ultimo giorno del suo servizio in Gamut Street. Avrebbe lasciato il numero 28 e gli escursionisti di Rozzezza e sarebbe tornato nella casa in cui un anno prima lui e Tay avevano celebrato il Ritorno del Sole Indomito.
II
Jude e Hoi Polloi avevano attraversato i Domini senza fretta, giacché, con tante strade fra cui scegliere e tante piccole gioie inattese lungo la via, affrettarsi era sembrato loro quasi un delitto. Non c'era motivo di farlo. Non avevano niente alle spalle che le spingesse, e nulla davanti a sé che le richiamasse. O almeno, Jude fingeva che fosse così. Ogni volta che durante i loro conversari emergeva il tema della destinazione finale, lei evitava di parlare del luogo che nel profondo del suo cuore sapeva sarebbe stata la loro ultima tappa. Ma se il nome di quella città non era sulle sue labbra, era sulle labbra di quasi ogni altra donna che incontravano, e quando Hoi Polloi rivelava loro che si trattava del suo luogo di nascita, le domande cominciavano a fioccare in gran numero. Era vero che ad ogni marea la baia si riempiva di pesci che riemergevano dalle profondità dell'oceano, antiche creature che conoscevano il segreto dell'origine delle donne e che nottetempo nuotavano lungo le strade allagate per andare ad adorare le Dee sviila collina? Era vero che lì le donne potevano avere figli senza bisogno di uomini, e che alcune erano persino in grado di evocarli soltanto sognandoli? E che in quella città c'erano fontane che rendevano giovani i vecchi, e alberi i cui frutti erano nuovi per quel mondo? Queste e molte altre erano le domande.
Anche se Jude acconsentiva a fornire descrizioni di ciò che aveva visto a Yzordderrex, i suoi racconti su come il palazzo fosse stato ricreato dall'acqua e sui fiumi d'acqua che sfidavano la gravita non erano particolarmente notevoli in confronto a quello che si diceva dell'antica città-Dio. Dopo alcune conversazioni in cui venne incitata a descrivere meraviglie di cui non sapeva nulla, come se gli interlocutori preferissero ascoltare prodigi inventati piuttosto che rimanere delusi, Jude comunicò a Hoi Polloi che non si sarebbe più lasciata coinvolgere in altre discussioni sull'argomento. Ma la sua immaginazione rifiutava di ignorare le storie che udiva, per quanto assurde fossero, e a ogni chilometro che percorrevano lungo la via di Lenten, l'idea della città che le attendeva alla fine del viaggio diventava più minacciosa. Si affliggeva pensando che forse la benedizione impartitale in quel luogo sarebbe stata priva di valore dopo tutto il tempo che aveva trascorso lontana. O che le Dee sapevano che aveva detto a Sartori in tutta sincerità di amarlo, e che la condanna di Jokalaylau su di lei si sarebbe rinnovata se mai fosse tornata nel loro tempio.
Una volta giunte sulla via di Lenten però, tutti i timori divennero puramente accademici. Ora non sarebbero tornate indietro, specialmente perché entrambe erano sempre più esauste. La città le richiamava dalle nebbie che si trovavano tra i Domini, ed esse vi sarebbero entrate insieme, affrontando qualsiasi giudizio, prodigio e pesce degli abissi che le stesse aspettando.
Oh, ma era cambiata! Nel Secondo il tempo era più caldo rispetto all'ultima volta, e le strade erano percorse da tanta acqua che l'aria era umida come ai tropici. Ma ancora più incredibile dell'umidità era il rigoglio della flora che quell'umidità stessa aveva generato. Una moltitudine di semi e spore era stata fatta affiorare dagli strati e dalle grotte sotto la città, e grazie alla magia delle Dee era maturata a velocità sovrannaturale. Antiche forme di vegetazione, per la maggior parte ritenute ormai estinte, avevano coperto di verde le pietre, trasformando i Kesparate in una giungla lussureggiante. Nello spazio di sei mesi, Yzordderrex si era trasformata in una specie di città perduta, sacra alle donne e ai bambini, la cui desolazione era mitigata dalla flora. L'odore di frutta matura era ovunque, e proveniva dai frutti che brillavano su vigne, rami e cespugli, l'abbondanza dei quali aveva a sua volta attirato animali che non avrebbero mai osato avvicinarsi a Yzordderrex durante il precedente regime. E attraverso questa abbondanza scorrevano le acque eterne, che nutrivano i semi fatti emergere dal mondo sotterraneo, scorrendo lungo i fianchi della collina in sfrenata libertà, anche se prive ormai delle loro flotte di preghiere: questo significava che le suppliche di coloro che vivevano qui erano state tutte esaudite, oppure che il solo fatto di averle immerse nell'acqua aveva reso quelle suppliche salvifiche.
Jude e Hoi Polloi non salirono al palazzo il giorno stesso del loro arrivo. Né il giorno seguente, né quello dopo ancora. Cercarono invece la casa dei Peccable, e vi si installarono con comodo, sebbene i tulipani sul tavolo della sala da pranzo fossero stati sostituiti da una calca di fiori spuntati attraverso il pavimento, e il soffitto si fosse trasformato in un'uccelliera. Dopo un viaggio tanto lungo durante il quale non avevano saputo da una notte all'altra dove avrebbero dormito, questi erano inconvenienti privi di importanza: erano troppo felici di potersi riposare, cullate nel sonno dal tubare e dai chiacchiericci, in letti che parevano pergolati. Al risveglio non mancava loro il cibo, di cui c'era grande abbondanza. Potevano cogliere i frutti dagli alberi, l'acqua scorreva fresca e trasparente per la strada, davanti alla casa, e in alcuni dei corsi d'acqua più ampi nuotavano i pesci, che costituivano l'alimento principale dei clan della zona.
In queste grandi famiglie v'erano uomini e donne, alcuni dei quali dovevano essere stati un tempo membri delle bande e degli eserciti che avevano lottato con tanta brutalità la notte della caduta dell'Autarca. Ma, fosse la gratitudine per essere sopravvissuti alla rivoluzione, o fosse l'influenza benefica del rigoglio e dell'abbondanza che li circondavano, si erano convinti a votarsi a uno scopo più alto. Le mani che avevano mutilato e ucciso erano adesso occupate a ricostruire alcune delle case, e creavano le loro mura senza sfidare la giungla o le acque che la nutrivano, ma in alleanza con esse. Questa volta, gli architetti erano donne che dal loro battesimo avevano tratto l'ispirazione di usare i resti della vecchia città per crearne una nuova, e Jude vide dappertutto gli echi dell'estetica serena ed elegante che caratterizzava l'opera delle Dee.
In queste costruzioni non vi era un senso di urgenza né, pensò Jude, di un grande piano da seguire. L'era dell'Impero era terminata, e tutti i dogmi, gli editti e i conformismi erano scomparsi con essa. Ognuno risolveva a suo modo il problema di trovare un tetto sotto cui riposare, sapendo che gli alberi erano allo stesso tempo ombrosi e generosi, mentre le case che venivano costruite erano tanto diverse l'una dall'altra quanto i visi delle donne che le edificavano. Il Sartori che aveva incontrato in Gamut Street avrebbe approvato, pensò Jude. Non le aveva forse sfiorato la guancia durante il loro penultimo incontro, dicendole che aveva sognato una città costruita a sua immagine? Se quell'immagine era donna allora questa era quella città, sorta dalle rovine.
Giorno dopo giorno godette dunque di un baldacchino mormorante, di fiumi gorgogliami, del calore, delle risa. E le notti divennero il tempo delle dormite sotto il tetto di piume, e dei sogni dolci e filati. Le cose andarono così per circa una settimana. Ma durante l'ottava notte, Jude venne svegliata da Hoi Polloi, che la chiamò alla finestra e le disse: "Guarda."
Jude guardò. Le stelle brillavano luminose sopra la città spruzzando d'argento il fiume sottostante. Ma la donna si rese conto che nell'acqua c'erano altre forme, più solide ma non meno argentate. Le voci che avevano sentito durante il viaggio erano vere. Stavano uscendo dall'acqua creature che nessuna barca di pescatori, per quanto in profondità le gettasse, avrebbe mai trovato nelle sue reti. Alcune di quelle creature avevano in sé tracce di delfino o di calamaro, o di manta, ma il loro tratto comune era una traccia di umanità, sepolta profondamente nel loro passato (o futuro) quanto lo erano le loro dimore nell'oceano. Alcune di loro possedevano arti, e parevano saltare il pendio anziché nuotare su di esso. Altre erano sinuose come anguille ma con teste in cui si scorgeva lo stampo del mammifero, occhi luminosi e bocche tanto perfette da poter formare delle parole.
La vista della loro ascesa era entusiasmante, e Jude rimase alla finestra fin quando l'intera frotta non scomparve lungo la strada. Non aveva dubbi circa la loro destinazione e ora, dopo quest'ultima visione, neanche sulla propria.
"Non potremmo essere più riposate di così," disse a Hoi Polloi.
"È ora di risalire la collina?"
"Sì. Credo di sì."
Lasciarono la casa dei Peccable all'alba, in modo da riuscire a salire il più possibile prima che la Cometa fosse troppo alta e che l'umidità fiaccasse loro le forze. Non era mai stato un viaggio facile, ma anche nella fresca aria mattutina era ormai divenuto assai faticoso, specialmente per Jude cui sembrava di portare nel ventre un peso di piombo anziché un essere vivente. Durante la salita dovette fermarsi diverse volte, sedendosi all'ombra per riprendere fiato. Rialzandosi dopo la quarta sosta, sentì i suoi sospiri divenire sempre più profondi, e le venne un dolore nello stomaco talmente acuto che dovette combattere per non svenire. La sua agitazione e le grida di Hoi Polloi fecero accorrere altre persone, e le si ruppero le acque mentre veniva adagiata su di un poggiolo di erbe in fiore.
Dopo poco meno di un'ora, a non più di un chilometro da dove un tempo si trovava il Cancello dei Santi Gemelli Peazzo e Sempre giù, in un boschetto abitato da piccoli uccellini turchesi, Jude partorì il primo e unico figlio dell'Autarca Sartori.
III
Sebbene gli inseguitori di Jude e Hoi Polloi avessero lasciato la creatrice di laghi nel Kwen con indicazioni chiare, raggiunsero Yzordderrex sei settimane dopo le donne. Il ritardo fu dovuto in parte al fatto che l'appetito sessuale di Monday si era assai placato dopo l'incontro nel Palazzo, e il suo passo si era fatto molto meno frenetico, ma soprattutto perché era in continuo aumento l'entusiasmo di Gentle per la cartografia. Non passava neppure un'ora senza che ricordasse qualche provincia che aveva attraversato, o qualche indicazione stradale che aveva visto, e ogni volta che lo faceva il viaggio veniva interrotto; Gentle estraeva il suo album fatto a mano di grafici, e disegnava puntigliosamente i dettagli, snocciolando come una litania i nomi di altopiani, bassopiani, foreste, pianure e città mentre lavorava. Non si faceva mettere fretta, anche se questo faceva sfumare la possibilità di ottenere un passaggio, o significava finire inzuppati dalla pioggia. Ecco, disse a Monday, la vera grande opera della sua vita, e l'unica cosa che gli dispiaceva era di esservi giunto tanto tardi.
A dispetto di quelle interruzioni, la città si avvicinava di giorno in giorno chilometro dopo chilometro finché una mattina, quando alzarono le teste dai cuscini sotto un cespuglio di biancospino, le foschie si diradarono ed essi intravidero finalmente, in lontananza, una grande montagna verde.
"Che cos'è quel posto?", si domandò Monday.
Stupefatto, Gentle disse: "Yzordderrex."
"Dov'è il palazzo? Dove sono le strade? Tutto quello che riesco a vedere sono alberi e arcobaleni."
Gentle era confuso quanto il ragazzo.
"Una volta era grigia, nera e insanguinata," disse.
"Be', ora è verde."
Man mano che si avvicinarono, il monte divenne sempre più verde, e l'odore della vegetazione addolciva talmente l'aria che ben presto Monday passò da un'espressione di disapprovazione all'ammissione che, dopotutto, quel posto poteva anche non essere tanto male. Se Yzordderrex si era trasformata in un bosco selvatico, allora forse tutte le donne erano diventate selvagge, coperte di succo di bacche e di sorrisi. Avrebbe potuto sopportarlo per un po'.
Ciò che trovarono sui pendii più bassi furono, naturalmente, scene assai più straordinarie delle fantasie più sfrenate di Monday. La maggior parte delle cose che gli abitanti della Nuova Yzordderrex davano per scontate - le acque anarchiche, gli alberi preistorici - misero in agitazione l'uomo e il ragazzo. I quali, dopo un po', smisero di esprimere il loro stupore e si arrampicarono attraverso il largo boschetto, alleggerendosi progressivamente del peso del bagaglio che avevano accumulato durante il viaggio per abbandonarlo sull'erba.
Gentle voleva andare nel Kesparate degli Eurhetemec nella speranza di trovarvi Athanasius, ma la città aveva subito una tale trasformazione che giungervi fu una faccenda lenta e difficile, e infine fu più la fortuna che altro a portarli alle sue porte. Le strade del Kesparate erano ricoperte di vegetazione come quelle che avevano percorso, e le sue terrazze somigliavano a un frutteto abbandonato a se stesso, i cui frutti caduti costituivano il pietrame che si trovava tra gli alberi.
Dietro suggerimento di Monday si divisero per cercare il Maestro, e Gentle avvertì il ragazzo che se avesse visto Gesù da qualche parte tra gli alberi, allora aveva trovato Athanasius. Ma tornarono entrambi alle porte senza essere riusciti a scovarlo, cosicché Gentle fu costretto a chiedere a certi bambini che erano venuti a giocare all'altalena vicino al cancello se qualcuno di loro aveva visto l'uomo che viveva qui. Gli rispose una di loro, una bambina di circa sei anni con i capelli talmente intrecciati con piante rampicanti da sembrare che fossero piantate sulla sua testa.
"E andato via," disse.
"Sai dove?"
"No."
"Qualcuno lo sa?"
"No," rispose lei, parlando per conto della sua piccola tribù.
Questo portò l'argomento Athanasius a un punto morto.
"E ora?" chiese Monday mentre i bambini ritornavano ai loro giochi.
"Seguiamo l'acqua," rispose Gentle.
Ricominciarono a salire mentre la Cometa, che aveva da tempo oltrepassato lo zenith, iniziò a discendere. Ormai erano entrambi affaticati, e a ogni passo che facevano aumentava la tentazione di sdraiarsi in un luogo tranquillo. Ma Gentle volle continuare, e spronò Monday ricordandogli che il seno di Hoi Polloi sarebbe stato un luogo assai più comodo su cui posare il capo di qualsiasi collinetta, e che i suoi baci sarebbero stati più corroboranti di un tuffo in piscina. Le sue parole furono convincenti e il ragazzo trovò un'energia che Gentle gli invidiò, precedendolo per aprire la strada al suo Maestro, fino a quando raggiunsero i mucchi di pietre nere che contraddistinguevano le mura del palazzo. Su di esse si ergevano le colonne che un tempo erano stati i cardini dei cancelli, ora trasformati in giochi d'acqua: l'acqua risaliva poi la colonna destra in rivoletti e si gettava attraverso l'apertura in un arco di goccioline che colpiva esattamente la parte superiore della colonna sinistra. Era lo spettacolo più allettante, e quello che attirò completamente l'attenzione di Gentle, il quale lasciò che Monday attraversasse le colonne da solo.
Dopo un po' il suo grido richiamò Gentle.
"Capo! Capo! Vieni qui!"
Gentle seguì le urla di Monday attraverso la pioggia calda sotto l'arco e nel palazzo stesso. Trovò Monday che guadava un cortile fragrante di gigli per raggiungere una figura che si trovava sotto il colonnato sull'altro lato. Era Hoi Polloi. I suoi capelli aderivano alla testa come se avesse appena nuotato, e il petto sul quale Monday era tanto ansioso di posare il capo era nudo.
"Allora siete arrivati, finalmente," disse la ragazza guardando oltre Monday, verso Gentle.
A metà strada il suo spasimante perse l'equilibrio e spezzò un po' di gigli nel tentativo di rimettersi in piedi.
"Sapevi che saremmo venuti?" chiese alla ragazza.
"Naturalmente," rispose lei. "Non tu. Ma il Maestro. Sapevamo che il Maestro stava arrivando."
"Ma è me che sei felice di vedere, giusto?" sbottò Monday. "Voglio dire, sei felice?"
Lei gli aprì le proprie braccia.
"Tu cosa pensi?" disse.
Monday lanciò un grido di gioia e sguazzò verso di lei togliendosi la camicia bagnata. Gentle lo seguì. Quando raggiunse l'altra sponda Monday si era già spogliato fino alla biancheria intima.
"Come facevate a sapere che saremmo venuti?" chiese Gentle alla ragazza.
"Ci sono profeti dovunque," disse Hoi Polloi. "Vieni. Ti porto su."
"Non può andare da solo?" protestò Monday.
"Più tardi avremo molto tempo per noi," replicò Hoi Polloi, prendendogli la mano. "Ma ora devo accompagnarlo alle stanze."
Gli alberi all'interno della cerchia delle mura demolite superavano in altezza quelli all'esterno, stimolati a una crescita senza precedenti dalla santità quasi palpabile di quel luogo. C'erano donne e bambini sui loro rami e tra le loro radici gigantesche, ma Gentle non vide nessun uomo, e immaginò che se Hoi Polloi non li avesse scortati quella gente gli avrebbe chiesto di andarsene. Poteva solo immaginare come avrebbero potuto dar forza a una tale richiesta, ma non dubitava che le presenze che impregnavano l'aria e la terra avessero i loro metodi. Sapeva cosa erano quelle presenze: le Dee promesse, della cui esistenza aveva sentito per la prima volta discutere a Beatrix, mentre sedeva nella cucina di Mamma Splendid.
Il percorso fu tortuoso. C'erano diversi punti in cui i fiumi scorrevano troppo violenti o troppo profondi per essere guadati; Hoi Polloi dovette portarli ai ponti o ai punti di guado, e poi ritornare indietro sull'altra sponda per riprendere il percorso. Ma più camminavano, più l'aria diveniva sensibile, e anche se Gentle aveva innumerevoli domande da fare, le tenne per sé piuttosto che esibire la sua ingenuità. Ogni tanto Hoi Polloi diceva qualcosa, ma erano concetti espressi con tale indifferenza da rappresentare dei misteri a sé stanti. "I fuochi sono talmente comici..." disse a un certo punto, mentre oltrepassavano un cumulo di pezzi di metallo che un tempo erano state le macchine da guerra dell'Autarca. E in un altro punto, dove una profonda pozza blu conteneva pesci grandi quanto uomini, disse: "Evidentemente hanno la loro città, ma è talmente in profondità nell'oceano che non credo la vedrò mai. I bambini invece sì. E questo è meraviglioso..."
Infine li portò davanti a una porta coperta da acqua corrente, e voltandosi verso Gentle esclamò: "Ti stanno aspettando."
Monday fece per oltrepassare la soglia d'acqua accanto a Gentle, ma Hoi Polloi lo trattenne con un bacio sul collo.
"Solo il Maestro," disse. "Tu vieni con me. Andremo a nuotare."
"Capo...?"
"Vai pure," gli ordinò Gentle. "Qui non mi accadrà nulla di male."
"Allora ci vediamo più tardi," rispose Monday, contento di farsi portare via da Hoi Polloi.
Prima che scomparissero nel boschetto, Gentle si girò verso la porta, dividendo la fredda barriera con le dita ed entrando nella camera dietro ad essa. Dopo l'esuberanza di vita dell'esterno, sia le dimensioni che l'austerità della camera lo sorpresero. Era la prima struttura che vedeva in città che mantenesse qualcosa dell'ambizione pazzesca di suo fratello. La sua vastità era contrastata solamente da pochi germogli e viticci, e l'unica acqua che vi scorreva era quella sulla porta alle sue spalle e quella che cadeva da un arco all'altra estremità della camera. Le Dee avevano però lasciato la loro traccia. Le pareti di quello che era stato progettato come un salone privo di finestre erano ora forate su tutti i lati sicché, pur nella sua immensità, il posto sembrava un nido d'api penetrato dalla dolce luce della sera. C'era un unico mobile: una sedia, vicina all'arco più distante; seduta su di essa, con un bambino in braccio, c'era Judith. Quando Gentle entrò, lei alzò lo sguardo dal viso del bambino e gli sorrise.
"Cominciavo a pensare che avessi perso la strada," disse.
La sua voce era leggera; quasi letteralmente, pensò lui. Quando parlò, i raggi che entravano dalle pareti vibrarono.
"Non sapevo che mi stessi aspettando," rispose lui.
"Non è stato così faticoso," replicò Jude. "Non vuoi avvicinarti?"
Mentre Gentle attraversava la camera verso di lei, Jude continuò: "In principio non pensavo che ci avresti seguito, ma poi ho riflettuto: lo farà, lo farà, perché vorrà vedere la bambina."
"Se devo essere onesto... non ho pensato alla bambina."
"Be', lei ha pensato a te," disse Jude, senza rimprovero.
La bambina che aveva in braccio non poteva avere più di qualche settimana ma, come gli alberi e i fiori del posto, era già in piena fioritura. Sedeva in braccio a Jude, anziché giacere, e con una piccola mano forte si attaccava ai lunghi capelli della madre. Anche se il seno di Jude era nudo e a portata di mano, la bambina non era interessata a nutrirsi o a dormire. I suoi occhi grigi fissavano Gentle e lo studiavano con uno sguardo intenso e interrogativo.
"Come sta Clem?" domandò Jude quando Gentle si trovò davanti a lei.
"L'ultima volta che l'ho visto stava bene. Ma me ne sono andato piuttosto improvvisamente, come saprai. Mi sento piuttosto in colpa. Del resto, una volta partito..."
"Lo so. Non potevi tornare indietro. Anche per me è stato lo stesso."
Gentle si accovacciò davanti a Jude e offrì la mano, con il palmo rivolto verso l'alto, alla bambina. Lei l'afferrò immediatamente.
"Come si chiama?" chiese.
"Spero che non ti spiaccia..."
"Cosa?"
"L'ho chiamata Huzzah."
Gentle sorrise a Jude. "Davvero?" Poi rivolse nuovamente lo sguardo alla bambina, attirato dal suo sguardo. "Huzzah?" chiamò, avvicinando il viso al suo. "Huzzah, io sono Gentle."
"Sa chi sei," disse Jude senza esitazione. "Sapeva di questa stanza ancora prima che esistesse. E sapeva che saresti venuto, presto o tardi."
Gentle non domandò come avesse fatto la bambina a farle capire che sapeva tutte queste cose. Era semplicemente un mistero in più.
"E le Dee?" chiese.
"Cosa?"
"A loro non dà fastidio che la bambina sia la figlia di Sartori?"
"Niente affatto," disse Jude, con voce più delicata. "L'intera città... l'intera città è qui a provare come il bene possa nascere dal male."
"Lei è più di questo, Jude," disse Gentle.
Lei sorrise, e lo fece anche la bambina.
"Sì."
Huzzah stava allungando le mani verso il viso di Gentle, pronta a ruzzolare dal grembo di Jude all'inseguimento del suo obiettivo.
"Credo che stia riconoscendo suo padre," disse Jude, riprendendo in braccio la bambina e alzandosi in piedi.
Anche Gentle si alzò, osservando Jude che portava Huzzah verso un cestino di giocattoli per terra. La bambina indicò col dito e farfugliò.
"Ti manca?" domandò lui.
"Mi mancava nel Quinto," rispose Jude, dandogli le spalle mentre raccoglieva il giocattolo scelto da Huzzah. "Ma qui no. Non da quando c'è Huzzah. Mi sembra di vivere solo da quando è comparsa lei. Ero un fantasma dell'altra Judith." Si rialzò, voltandosi verso Gentle. "Sai che non riesco ancora a ricordare tutti quegli anni mancanti? Ogni tanto mi torna in mente qualcosa, ma niente di veramente reale. È come se avessi sempre vissuto in un sogno. Ma lei mi ha svegliato, Gentle." Jude baciò la guancia della bambina. "Lei mi ha resa reale. Fin quando non è arrivata lei io ero solo una copia. Lo eravamo entrambi. Lui lo sapeva e io lo sapevo. Ora però abbiamo fatto qualcosa di nuovo." Sospirò. "Non mi manca," disse. "Ma vorrei che avesse potuto vederla. Una volta sola. Così anche lui avrebbe saputo cosa significa essere reale."
Ritornò verso la sedia ma la bambina allungò nuovamente le braccia verso Gentle, emettendo un piccolo grido per sottolineare il suo desiderio.
"Però," notò Jude. "Sei davvero popolare."
Si sedette di nuovo e poggiò davanti a Huzzah il giocattolo che aveva raccolto. Era una piccola pietra blu.
"Tieni, tesoro," disse in tono amorevole. "Guarda. Che cos'è? Che cos'è?"
Gorgogliando per la gioia, la bambina prese il giocattolo dalle dita della madre con una destrezza ben superiore alla sua tenera età. I gorgoglii divennero sogghigni quando la bimba se lo posò sulle labbra, quasi volesse baciarlo.
"Le piace ridere," disse Gentle.
"Sì, grazie a Dio. Oh, senti cosa dico! Ringrazio ancora Dio."
"Le vecchie abitudini..."
"Questa finirà," disse con fermezza Jude.
La bambina stava mettendosi il giocattolo in bocca.
"No, tesoro, non fare così..." disse Jude. Poi, rivolta a Gentle: "Pensi che alla fine l'Annullamento si dissolverà? Ho un'amica qui che si chiama Lotti, e lei è di questa opinione. Marcirà e allora dovremo vivere in mezzo al puzzo del Primo ogni volta che il vento verrà da quella direzione."
"Forse si potrebbe costruire un muro."
"Chi vuoi che lo faccia? Nessuno si vuole avvicinare a quel posto."
"Nemmeno le Dee?"
"Loro hanno da fare qui. E nel Quinto. Vogliono liberare le acque anche lì."
"Quello sì che sarebbe uno spettacolo."
"Sì, lo credo. Forse tornerò per l'occasione..."
Durante questo dialogo le risa di Huzzah erano diminuite. Ora la bimba stava nuovamente studiando Gentle, e allungava le mani verso di lui dal grembo di sua madre. Questa volta la sua piccola mano non era aperta, ma stringeva la pietra blu.
"Credo voglia che tu la prenda," disse Jude.
Gentle sorrise alla bambina e disse:
"Grazie. Ma tienila tu."
Lo sguardo della bambina divenne più intenso e lui fu sicuro che comprendesse ogni parola che diceva. La sua mano offriva ancora il regalo, decisa a farglielo prendere.
"Dài," gli chiese Jude.
Obbedendo all'ordine nei suoi occhi e alle parole di Jude, Gentle afferrò cautamente la pietra dalla mano di Huzzah. La bambina possedeva già una certa forza. La pietra era pesante; pesante e fredda.
"Ora abbiamo fatto davvero pace," disse Jude.
"Non sapevo che fossimo in guerra," rispose Gentle.
"È quella peggiore, non è vero?" disse Jude. "Ma adesso è finita. È finita per sempre."
Ci fu una leggera modulazione del flusso d'acqua nell'arco alle spalle di Jude, e lei si voltò. La sua espressione fino ad allora era stata severa, ma quando guardò nuovamente verso Gentle aveva un sorriso sul volto.
"Devo andare," disse alzandosi.
La bambina stava ridacchiando con le mani protese verso l'alto. "Ci vedremo ancora?" chiese Gentle.
Jude scosse lentamente la testa, guardandolo quasi con indulgenza.
"A che scopo?" mormorò. "Ci siamo detti tutto quello che dovevamo. Ci siamo perdonali l'un l'altro. E finita."
"Mi sarà consentito rimanere in città?"
"Certamente," rispose lei ridendo. "Ma perché farlo?"
"Perché sono arrivato alla fine del mio viaggio."
"Davvero?" disse lei, dirigendosi verso l'arco. "Pensavo che ti mancasse ancora un Dominio."
"L'ho visto. So che cosa c'è lì."
Ci fu una pausa, poi Jude chiese: "Celestine ti ha mai raccontato la sua storia? L'ha fatto, non è vero?"
"La storia di Nisi Nirvana?"
"Sì. L'ha raccontata anche a me, la notte prima della Riconciliazione. Tu l'hai capita?"
"Non completamente."
"Ah."
"Perché?"
"Niente... neanch'io l'ho capita, e pensavo che forse..." alzò le spalle. "Non so cosa pensavo."
Ormai era giunta sotto l'arco e la bambina stava osservando una figura comparsa dietro al velo d'acqua. Il visitatore non era, pensò Gentle, completamente umano.
"Hoi Polloi ti ha parlato degli altri nostri ospiti, non è vero?" domandò Jude, vedendo il suo stupore. "Sono venuti dall'oceano, per cercarci." Sorrise. "Bellissimi, alcuni di loro. Ci saranno dei bambini..."
Il sorriso divenne leggermente esitante.
"Non essere triste, Gentle," disse. "Abbiamo fatto il nostro tempo."
Poi si voltò e portò la bambina oltre la soglia. Gentle la sentì ridere alla vista del viso che le attendeva dall'altra parte, e vide il corpo di quel viso posare le sue braccia argentee intorno a madre e figlia. Poi la luce nei suoi occhi si accese, percorrendo la tenda d'acqua, e quando si affievolì la famiglia era scomparsa.
Gentle attese diversi minuti nella camera vuota, consapevole che Jude non sarebbe ritornata, senza sapere neanche se lo voleva, ma incapace di allontanarsi prima di aver impresso nella sua memoria tutto ciò che era accaduto tra di loro. Solo qualche minuto dopo ritornò alla porta e uscì nell'aria della sera. Il bosco selvatico era ora preda di un diverso tipo di incantesimo. Soffici nebbioline blu scendevano dal baldacchino e si alzavano dalle pozze. I canti melliflui degli uccelli notturni avevano sostituito quelli del giorno e il ronzio indaffarato degli impollinatori aveva ceduto il posto al battito d'ali delle falene.
Gentle cercò Monday senza riuscire a trovarlo, e sebbene nessuno gli impedisse di aggirarsi liberamente in quel luogo idilliaco si sentì a disagio. Quel posto non gli apparteneva più. Di giorno era pieno di vita e di notte, immaginò, troppo pieno d'amore. Sentirsi completamente immateriale era per lui un'esperienza del tutto nuova. Anche durante il viaggio, mentre si teneva in disparte davanti ai fuochi dove venivano raccontate storie assurde, era sempre stato consapevole che se avesse aperto la bocca e si fosse fatto riconoscere sarebbe stato festeggiato, circondato, adorato. Ma qui no. Qui non era niente, niente e nessuno. C'erano nuove nascite, nuovi misteri, nuovi matrimoni.
Forse i suoi piedi lo compresero meglio della sua testa, perché prima che lui confessasse a se stesso la sua inutilità, lo portarono via, sotto gli archi carichi d'acqua, scendendo per i pendii della città. Non si diresse verso il delta, ma verso il deserto, e anche se non aveva visto lo scopo del suo viaggio quando Jude vi aveva accennato, non rifiutò ai suoi piedi di lasciarsi condurre laggiù.
L'ultima volta che era emerso dall'entrata che portava nel deserto aveva trasportato Pie, e intorno a loro c'era una calca di profughi. Ora era solo, e anche se non aveva alcun peso da trasportare a parte il proprio sapeva che il percorso che lo attendeva avrebbe esaurito le ultime tracce di volontà rimastegli. La cosa non lo preoccupava molto. Anche se fosse morto in viaggio non avrebbe avuto molta importanza. Qualunque cosa Jude avesse detto, il pellegrinaggio era giunto alla fine.
Quando raggiunse l'incrocio dove aveva incontrato Floccus Dado udì un grido alle proprie spalle, e si girò per vedere Monday a torso nudo che galoppava verso di lui attraverso la luce che scemava, a cavallo di un mulo o di una qualche variante a strisce della stessa specie.
"Cosa stavi facendo, te ne andavi senza di me?" domandò a Gentle quando lo raggiunse.
"Ti ho cercato, ma non c'eri. Ho pensato che te ne fossi andato per mettere su famiglia con Hoi Polloi."
"No!" disse Monday. "Quella ragazza ha idee strane. Ha detto che voleva presentarmi un qualche pesce. Io le ho detto che non amavo troppo il pesce, perché le spine si infilano in gola. Be', questo è vero, no? La gente si strozza regolarmente con il pesce. Comunque lei mi guarda come se avessi appena scoreggiato, e dice che forse dopotutto è meglio se vengo con te. Allora mi trova questo orribile piccolo stronzo," e diede una pacca sul fianco dell'ibrido, "e mi indica questa direzione." Guardò indietro, verso la città. "Credo sia un bene che ce ne siamo andati," disse, abbassando la voce. "Se proprio lo vuoi sapere c'era troppa acqua. L'hai vista al cancello? Un'enorme fontana."
"No, non l'ho vista. Dev'essere recente."
"Vedi? Tutto questo posto affonderà. Andiamocene alla svelta. Salta su."
"Come si chiama l'animale?"
"Tolland," disse Monday con un ghigno, "Da che parte siamo diretti?"
Gentle indicò l'orizzonte.
"Non vedo niente."
"Allora deve essere la direzione giusta."
IV
Pratico come al solito, Monday non aveva lasciato la città senza fare scorte. Aveva usato la camicia come sacco e l'aveva riempita quasi fino a scoppiare di frutti succulenti che costituirono il loro solo sostentamento per tutto il resto del viaggio. Quando giunse la notte non si fermarono ma mantennero la loro andatura, camminando a turno accanto all'animale per non stancarlo e dandogli porzioni di frutta uguali alle loro, più i noccioli, i torsoli e le bucce che scartavano.
Per la maggior parte del tempo della cavalcata Monday dormì, ma Gentle rimase sveglio nonostante la stanchezza, troppo afflitto dal problema di come avrebbe rappresentato questo deserto nel suo atlante dei Domini per permettersi di assopirsi. Teneva costantemente in mano la pietra che Huzzah gli aveva dato, tanto che il palmo gli sudava e vi si formarono piccole pozze. Quando se ne accorgeva, Gentle la metteva via per scoprire pochi minuti più tardi di averla di nuovo tirata fuori dalla tasca, senza nemmeno rendersene conto, e che le sue dita ci stavano di nuovo giocherellando.
Ogni tanto lanciava uno sguardo verso Yzordderrex: era un panorama notevole, con i fianchi della città che brillavano da punti innumerevoli, come se le acque nelle sue strade fossero diventati specchi perfetti per le stelle. Yzordderrex non era l'unica fonte di un tale splendore. Anche il terreno tra le porte della città e il percorso che stavano seguendo brillava qua e là, catturando frammenti della magnificenza del cielo.
Ma tutti questi incanti scomparvero ai primi segni dell'alba. La città alle loro spalle era da tempo svanita, e le nuvole davanti a loro si rabbuiarono. Vedendo il colore funesto di quel cielo, Gentle si ricordò dell'occhiata che lui e Sua Rozzezza erano riusciti a dare al Primo. Anche se l'Annullamento teneva ancora fuori la pestilenza di Hapexamendios dal Secondo, la sua corruzione era troppo intensa per poter essere dimenticata, e man mano che si avvicinavano i cieli purpurei si rabbuiarono, distendendosi lungo l'intero orizzonte e salendo fino al loro culmine.
C'erano però buone notizie: non erano soli. Quando apparvero all'orizzonte i resti disgraziati delle tende dei Dearther, apparve anche un gruppo di indagatori di Dio, circa una trentina, che osservavano l'Annullamento. Uno di loro vide avvicinarsi Monday e Gentle, e la notizia del loro arrivo si diffuse nel piccolo gruppo, fino a raggiungere uno di loro che corse immediatamente verso i due viaggiatori.
"Maestro! Maestro!" gridò avvicinandosi.
Era, naturalmente, Chicka Jackeen, felicissimo di rivedere Gentle, anche se dopo l'iniziale flusso di saluti la conversazione si fece triste.
"Maestro, in che cosa abbiamo sbagliato?" volle sapere. "Non è così che doveva essere, non è vero?"
Gentle fece del suo meglio per spiegare tutto, a volte stupendo e a volte atterrendo Chicka Jackeen.
"Sicché Hapexamendios è morto?"
"Sì. E nel Primo tutto appartiene all'essenza del Suo corpo. E sta marcendo fino al cielo."
"Cosa accadrà quando l'Annullamento marcirà?"
"Chi lo sa? Temo che ci sia abbastanza marciume da far scappare tutto il Dominio per la puzza."
"E qual è il tuo piano?" volle sapere Chicka Jackeen.
"Non ho un piano."
L'altro, parve confuso. "Ma sei venuto fino a qui," disse. "Devi aver avuto una qualche idea."
"Mi spiace deluderti," rispose Gentle, "ma la verità è che questo era l'unico posto che mi era rimasto." Guardò l'Annullamento. "Lucius, Hapexamendios era mio padre. Forse nel profondo del mio cuore penso che dovrei essere nel Primo insieme a Lui."
"Capo, se mi permetti..." lo interruppe Monday.
"Sì?"
"È un'idea davvero idiota."
"Se tu entrerai, lo farò anch'io," disse Chicka Jackeen. "Voglio vedere di persona. Un Dio morto è una cosa da raccontare ai propri figli, eh?"
"Figli?"
"Be'..." disse Jackeen, "... o faccio così o scrivo le mie memorie, e non ho la pazienza di farlo."
"Tu?" disse Gentle. "Mi hai aspettato duecento anni e dici di non avere pazienza?"
"Non più," fu la risposta. "Voglio una vita, Maestro."
"Non te ne faccio una colpa."
"Ma non prima di aver visto il Primo."
Avevano ormai raggiunto l'Annullamento, e mentre Chicka Jackeen tornava tra i suoi colleghi per raccontare loro cosa lui e il Riconciliatore si apprestavano a fare, Monday espresse ancora una volta la sua opinione su quell'impresa rischiosa.
"Capo, non farlo," disse. "Non hai niente da dimostrare. So che ti sei incazzato che a Yzordderrex non abbiano organizzato una festa, ma io dico, che vadano pure a farsi fottere. Che si tengano il loro pesce..."
Gentle posò le mani sulle spalle di Monday.
"Non ti preoccupare," disse. "Questa non è una missione suicida."
"E allora perché tanta fretta? Sei stanco morto, Capo. Fatti una dormita. Mangia qualcosa. Rimettiti in forze. Hai tutto domani davanti a te."
"Sto bene," disse Gentle. "Ho il mio talismano."
"Cos'è?"
Gentle aprì la mano e mostrò la pietra blu a Monday.
"Un cazzo di uovo?"
"Un uovo, eh?" disse Gentle gettando in aria la pietra. "Sì, forse è qualcosa del genere."
Gettò la pietra in aria una seconda volta, ed essa si alzò, molto più in alto di quanto l'avesse spinta il suo muscolo, molto al di sopra delle loro teste. All'apice della sua ascesa parve fermarsi per un attimo, poi gli tornò con calma in mano, sfidando la gravita. Mentre scendeva, portò con sé una pioggerellina leggerissima, che rinfrescò i loro visi protesi verso l'alto.
Monday esultò. "La pioggia dal nulla," disse. "Me la ricordo."
Gentle lo lasciò a lavarsi la polvere dal viso, e andò a unirsi a Chicka Jackeen, che aveva terminato di spiegare i suoi piani ai colleghi. Rimasero tutti indietro, osservando i Maestri con sguardi inquieti.
"Pensano che moriremo," spiegò Chicka Jackeen.
"Potrebbero benissimo avere ragione," disse tranquillamente Gentle. "Sei sicuro di voler venire con me?"
"Di nulla sono mai stato più sicuro."
Iniziarono allora ad avvicinarsi al terreno ambiguo che si trovava tra la solidità del Secondo e lo spazio vuoto dell'Annullamento, Mentre camminavano, uno degli amici di Chicka Jackeen lo chiamò, in ansia. Il grido venne ripetuto da diversi altri, ma le loro urla erano troppo confuse per risultare comprensibili. Jackeen si fermò per un attimo a guardare verso il gruppo che stava lasciando. Gentle non tentò di convincerlo a continuare. Ignorò le grida e continuò a camminare, mentre l'Annullamento si addensava intorno a lui e l'odore della devastazione che si trovava dall'altra parte diventava più forte a ogni passo. Ma Gentle era preparato anche a questo. Anziché trattenere il fiato, inspirò profondamente il puzzo del marciume di suo padre, sconfiggendone l'asprezza.
Udì un altro grido alle sue spalle, ma questa volta non era uno degli amici di Jackeen, bensì il Maestro stesso, la voce colma di sorpresa anziché di allarme. Il suo tono suscitò la curiosità di Gentle, che si voltò per cercare Jackeen, ma il nulla si era ormai insinuato fra di loro. Rifiutando di attardarsi, Gentle continuò, con un passo deciso che sorprese anche lui. Le sue gambe indebolite avevano trovato da qualche parte forza; il cuore gli batteva energicamente nel petto.
Davanti a lui, l'oscurità accecante si stava muovendo, facendo emergere le vaghe forme del Primo. E da dietro, la voce di Jackeen: "Maestro? Maestro! Dove sei?"
Senza rallentare il passo, Gentle rispose. "Lucius, qui!"
"Aspettami!" ansimò Jackeen. "Aspetta!" ed emerse dal vuoto, posando la mano sulla spalla di Gentle.
"Che cosa c'è?" chiese Gentle, voltandosi a guardare Lucius, sul cui viso erano scomparsi i segni del tempo, e che era tornato nuovamente un giovanotto, sudato per lo stupore provocato dalle magie.
"Le acque..." disse.
"Le acque cosa?"
"Ti hanno seguito, Maestro. Ti hanno seguito."
Mentre parlava, arrivarono. E come arrivarono! Corsero ai piedi di Gentle in ruscelli brillanti che gli si infransero su caviglie e stinchi, e saltarono come serpenti argentati verso le sue mani. O piuttosto, verso la pietra ch'egli teneva in mano. Vedendo la loro eccitazione e il loro zelo, udì la risata di Huzzah, e sentì ancora una volta le sue piccole dita sfiorargli la mano mentre gli passavano l'uovo blu. Non dubitò neanche un attimo che lei sapesse che cosa sarebbe accaduto del regalo. Come, probabilmente, lo aveva saputo Jude. Infine era diventato anche il loro emissario, come lo era diventato di sua madre, e il pensiero di quel dolce servizio portò sulle sue labbra un'eco della risata della bambina.
Dall'alto, l'uovo stava attirando una pioggerellina che contribuì alle acque sul terreno tanto che in pochi secondi il picchiettio divenne un boato, e venne un vero diluvio, abbastanza violento da risciacquare dall'aria il buio dell'Annullamento. Dopo pochi momenti la luce cominciò ad avvolgere i Maestri: la prima luce che questo posto avesse visto da quando Hapexamendios aveva avvolto nel suo vuoto il Dominio. Gentle si rese conto che l'eccitazione di Lucius si stava velocemente trasformando in panico.
"Affogheremo!" gridò, lottando per rimanere in piedi mentre le acque diventavano sempre più profonde.
Gentle non si ritrasse. Sapeva qual era il suo dovere. Quando la spuma dei frangenti si infranse sulle loro schiene e la marea minacciò di affogarli, sollevò il regalo di Huzzah fino alle labbra e lo baciò, proprio come aveva fatto lei. Poi raccolse tutte le sue forze e scagliò la pietra verso il paesaggio che si apriva davanti a loro. L'uovo partì dalla sua mano con una volontà propria, e immediatamente le acque si lanciarono al suo inseguimento, dividendosi intorno ai Maestri e portando le loro maree nel deserto del Primo.
Ci sarebbero volute settimane, forse anche mesi, per coprire il Dominio da un'estremità all'altra, e la maggior parte di quell'opera sarebbe stata inosservata. Ma nelle ore successive, dal loro punto di osservazione, i Maestri poterono lanciare un'occhiata alla loro impresa. Le nuvole sopra il Primo, che erano state inerti quanto il paesaggio sottostante, iniziavano ora ad agitarsi, intorbidirsi e a sfogare la propria angoscia con stupende tempeste, che a loro volta gonfiarono i fiumi che si insinuavano attraverso il putridume.
I resti di Hapexamendios non vennero oltraggiati. Con la risolutezza delle Dee che alimentava ogni loro goccia, le acque girarono intorno al luogo della carneficina più volte, svuotando la sostanza dei suoi veleni e raccogliendola in mucchi che l'aria ravvivata ornava di festoni di vapore.
Il primo terreno che affiorò da questo tumulto era vicino ai piedi dei Maestri, e si trasformò rapidamente in una penisola frastagliata estesa per più di un chilometro nel Dominio. Le acque si infrangevano costantemente su di essa, portando con ogni onda un carico di argilla di Hapexamendios ad aumentare la sua estensione. Per un po' Gentle rimase pazientemente fermo sul confine. Ma non riuscì a resistere a lungo alla tentazione e infine, ignorando gli inviti alla cautela di Lucius, si diresse verso la spina di terra per meglio osservare lo spettacolo. Le acque si stavano ritirando dalla nuova terra, e qua e là i fulmini colpivano ancora i pendii, ma il terreno era solido, e c'erano dovunque germogli. Se era così, pensò Gentle, in poco tempo ci sarebbe stata vita anche qui.
Quando il Maestro raggiunse l'estremità della penisola, le nuvole stavano iniziando a rischiararsi, liberate dalla loro furia. Più avanti il processo al quale gli era stato concesso di assistere stava appena cominciando, con le tempeste che si diffondevano in tutte le direzioni. Grazie ai loro scoppi riuscì a vedere i fiumi che si muovevano, lavorando con forza. Ma sul promontorio la luce era più benigna. Sembrava che il Primo Dominio avesse un sole, e anche se non era ancora caldo, Gentle non attese che il tempo si calmasse per cominciare il suo lavoro, ma prese l'album e la penna dalla giacca e si mise a sedere sulla terra paludosa per lavorare. Doveva ancora disegnare la mappa del deserto tra i cancelli di Yzordderrex e l'Annullamento, e anche se queste pagine fossero state senza dubbio le più spoglie dell'album, proprio per questo esse dovevano essere disegnate con più cura: voleva che la loro stessa nudità avesse una bellezza propria.
Dopo circa un'ora di lavoro intenso Gentle udì Lucius alle sue spalle. Prima un passo, poi una domanda: "Parli un'altra lingua, Maestro?"
Gentle non si era nemmeno reso conto dell'inventario che stava biascicando fino a quando la sua attenzione non venne attirata su di esso: una lista di nomi che dovevano risultare incomprensibili a chiunque tranne che a se stesso. I luoghi del suo pellegrinaggio, a lui familiari quanto i suoi molti nomi.
"Stai disegnando il nuovo mondo?" gli domandò Lucius, non osando avvicinarsi all'artista mentre era al lavoro.
"No, no," disse Gentle. "Sto finendo una mappa." Fece una pausa, poi si corresse. "No, non finendo. Cominciando."
"Posso vedere?"
"Se ti fa piacere."
Lucius si accovacciò dietro a Gentle e guardò sopra la sua spalla. Le pagine che descrivevano il deserto erano complete. Il Maestro stava ora tentando di delineare la penisola sulla quale sedeva e una parte del paesaggio davanti a sé. Sarebbe stato poco più di qualche riga, ma era un inizio.
"Lucius, mi domandavo, non andresti a chiamarmi Monday?"
"Hai bisogno di qualcosa?"
"Sì, voglio che porti con sé queste mappe nel Quinto, e che le dia a Clem."
"Chi è Clem?"
"Un angelo."
"Ah."
"Lo vai a chiamare?"
"Ora?"
"Se puoi," disse Gentle. "Ho quasi finito."
Obbediente come sempre, Jackeen si alzò e tornò nel Secondo, lasciando Gentle al suo lavoro. Era rimasto pochissimo da fare. Gentle terminò la rozza rappresentazione del promontorio, poi aggiunse una linea di punti accanto a esso per segnare il suo percorso, e sul capo fece una piccola croce nel punto in cui era seduto. Fatto questo, sfogliò l'album per esser sicuro che le pagine fossero nell'ordine esatto. Gli venne in mente che aveva modellato un autoritratto. Come il suo creatore, la mappa aveva tante pecche, ma, sperava fossero correggibili; una cosa rudimentale che col tempo avrebbe potuto vedere delle versioni migliori, essere fatta, e rifatta, e rifatta ancora, forse per sempre.
Stava per posare l'album accanto alla penna quando udì nella risacca che batteva contro il pendio sottostante una traccia di suoni articolati. Non riuscendo a comprendere, si avvicinò alla sponda. Il terreno era troppo recente per essere solido e minacciava di sbriciolarsi sotto al suo peso, ma lui guardò verso il basso più che poteva, e ciò che vide e udì fu sufficiente a farlo ritirare dal bordo, inginocchiare nella sporcizia, e iniziare a scrivere con mani tremanti un messaggio che accompagnasse le mappe.
Fu un messaggio necessariamente breve. Ora riusciva a udire le parole con chiarezza, mentre salivano dalle onde. Lo distraevano con le loro promesse.
"Nisi Nirvana..." dicevano, "Nisi Nirvana..."
Quando ebbe finito il messaggio, Gentle posò l'album e la penna accanto a esso e ritornò sul bordo del promontorio; il sole di questo Dominio stava emergendo dalle nuvole tempestose, e gettò la sua luce sulle onde sottostanti. I raggi le placarono per un po', calmando la loro frenesia e perforandole, cosicché Gentle riuscì a intravedere il terreno sul quale si muovevano. Non sembrava affatto terra, bensì un altro cielo, e in esso c'era una sfera talmente maestosa, che ai suoi occhi tutti i corpi nei cieli dell'Imagica, tutte le stelle, tutte le lune, tutti i soli di mezzogiorno messi insieme non avrebbero potuto eguagliarne la gloria. Questa era la porta che la città di suo Padre avrebbe dovuto sigillare; la porta attraverso la quale era stato sussurrato il nome di sua madre nella favola. Era rimasta chiusa per millenni, ma ora era aperta, e da essa si levava una musica di voci, che andavano per la loro via verso ogni spirito errante nell'Imagica richiamandolo a casa e all'estasi.
In mezzo a quelle voci ce n'era una che Gentle conosceva, e prima che ne avesse vista la fonte, la sua mente aveva immaginato il viso che lo chiamava, e il suo corpo sentì le braccia che lo avrebbero stretto e portato in alto. Poi arrivarono quelle braccia e quel viso, e non fu più necessario immaginarle.
"Hai finito?" gli venne chiesto.
"Sì," rispose.
"Ho finito."
"Bene," disse Pie'oh'pah sorridendo, "Allora possiamo cominciare noi."
Man mano che il coraggio e la curiosità aumentavano, la congregazione che Chicka Jackeen aveva lasciato all'estremità del Primo cominciò ad avventurarsi lungo la penisola. Monday era naturalmente con loro, e Jackeen stava per chiamare il ragazzo e mandarlo dal Riconciliatore quando quello emise un grido, indicando lungo il promontorio. Jackeen si voltò, e fissò i suoi occhi come fecero tutti sulle due figure che si stavano abbracciando sul capo. Più tardi ci sarebbero state molte discussioni fra i testimoni su ciò che avevano davvero visto. Erano tutti d'accordo che uno dei due era il Maestro Sartori. Ma sull'altro le opinioni erano assai diverse. Alcuni dissero di aver visto una donna, altri un uomo, altri ancora una nuvola con un pezzo di sole che bruciava dentro a essa. Nonostante queste discordanze, non c'erano dubbi su ciò che era accaduto in seguito. Dopo essersi abbracciate, le due figure avanzarono verso la sponda del promontorio, dove fecero un passo nell'aria e scomparvero.
Due settimane più tardi, nel penultimo giorno di un triste dicembre, Clem sedeva davanti al fuoco nella sala da pranzo del numero 28, un punto dal quale si era raramente alzato da Natale, quando udì un battito frenetico alla porta. Non aveva un orologio: che importanza aveva il tempo ormai? Ma immaginò che fosse passata da molto la mezzanotte. Chiunque arrivasse a un'ora simile era probabilmente disperato o pericoloso, ma nel suo attuale umore cupo non gli importava granché di ciò che poteva aspettarlo in strada. Non gli era rimasto nulla, né in quella casa, né nella sua vita. Gentle era andato, Judy era andata, e da poco anche Tay era andato. Cinque giorni prima, infatti, l'aveva udito sussurrare il suo nome e dire: "Clem... devo andare."
"Andare?" aveva risposto lui. "Dove?"
"Qualcuno ha aperto la porta," rispose Tay. "I morti vengono richiamati a casa. Devo andare."
Piansero insieme per un po', e mentre le lacrime gli cadevano dagli occhi, il suono dell'angoscia di Tay lo distruggeva dall'interno. Ma non c'era nulla da fare. La chiamata era giunta, e anche se Tay era distrutto dal dolore all'idea di separarsi da Clem, la sua esistenza era divenuta insopportabile, e sotto il dolore della separazione c'era la consapevolezza gioiosa della liberazione imminente. La loro strana unione era terminata. Era ora che il vivo e il morto si separassero.
Clem non aveva saputo veramente cosa significasse perdere qualcuno fino a quando Tay non se ne andò. Il dolore per la scomparsa del corpo fisico del suo amante era stato molto forte, ma perdere lo spirito che era miracolosamente tornato fu molto peggio. Non era possibile, pensò, sentirsi più vuoti di così. Durante quei giorni bui si era domandato diverse volte se non dovesse semplicemente suicidarsi nella speranza di essere in grado di seguire il suo amante attraverso la porta che ora era stata aperta, qualunque essa fosse. Se non lo fece, fu più per la responsabilità che sentiva che per una mancanza di coraggio. Era l'unico testimone dei miracoli di Gamut Street rimasto in questo Dominio. Se se ne andava, chi avrebbe più potuto raccontare la storia?
Ma a quell'ora, un interrogativo del genere sembrava poco importante, e mentre si alzava dal fuoco e si avvicinava alla porta si permise di pensare che se questi visitatori di mezzanotte erano venuti portandogli la morte, forse lui non l'avrebbe rifiutata. Senza chiedere chi c'era dall'altra parte, sollevò i catenacci e aprì la porta. Con sua sorpresa scoprì Monday, in piedi nel nevischio che cadeva. Accanto a lui c'era un estraneo tremante, i cui ricci sottili erano appiattiti sulla testa.
"Lui è Chicka Jackeen," disse Monday issando il suo ospite fradicio oltre la soglia. "Jackie, questo è Clem: l'ottava meraviglia del mondo. Allora, sono troppo bagnato per ricevere un abbraccio?"
Clem aprì le braccia a Monday, che lo abbracciò con calore.
"Pensavo che tu e Gentle ve ne foste andati per sempre," disse
Clem.
"Be' uno di noi due l'ha fatto," fu la risposta.
"Lo immaginavo," disse Clem. "Tay lo ha seguito. E anche gli spettri."
"Quando è successo?"
"Il giorno di Natale."
Jackeen stava battendo i denti, e Clem lo portò davanti al fuoco che aveva alimentato con i mobili di casa. Vi gettò un paio di gambe di sedia e invitò Jackeen a sedersi davanti alle fiamme per scongelarsi. L'uomo lo ringraziò e si sedette. Monday però era fatto di materia più resistente. Servendosi liberamente del whisky che si trovava accanto al focolare, ne bevve diverse sorsate, poi si mise a svuotare la stanza, spiegando mentre spingeva il tavolo nell'angolo che avevano bisogno di spazio per lavorare. Una volta liberato il pavimento, si aprì la giacca ed estrasse l'atlante di Gentle da sotto il braccio, lasciandolo cadere davanti a Clem.
"Cos'è questo?"
"È la mappa dell'Imagica," disse Monday.
"L'ha fatta Gentle?"
"Già."
Monday si accovacciò e aprì l'album, estràendo i fogli sciolti e dando la copertina a Clem.
"Ha scritto un messaggio all'interno," disse Monday.
Mentre Clem leggeva le poche parole che Gentle aveva scribacchiato sulla copertina, Monday iniziò a disporre i fogli sul pavimento, uno accanto all'altro, allineandoli attentamente in modo che le tavole diventassero un flusso ininterrotto. Mentre lavorava parlava con l'entusiasmo di sempre.
"Sai che cosa vuole che facciamo, non è vero? Vuole che disegniamo questa mappa su ogni fottuto muro che riusciamo a trovare! Sui marciapiedi! Sulle nostre fronti! In ogni luogo e dovunque."
"È una bella impresa," esclamò Clem.
"Sono qui per aiutarti," disse Chicka Jackeen, "in tutti i modi che mi saranno possibili."
Si alzò dal fuoco, e si avvicinò a Clem per ammirare il disegno che stava emergendo sul pavimento davanti a loro.
"Non è l'unica cosa che sei venuto a fare, non è vero?" disse Monday. "Sii onesto."
"Be', no," disse Jackeen. "Mi piacerebbe anche trovarmi una moglie. Ma per quello dovrò aspettare."
"Esattamente!" disse Monday. "Adesso dobbiamo occuparci di questo."
Si alzò in piedi e uscì dal cerchio che le pagine dell'album di Gentle avevano disegnato. Qui c'era l'Imagica, o meglio la piccola parte di essa che il Riconciliatore aveva visto. Patashoqua e Vanaeph; Beatrix e le montagne di Jokalaylau; Mai-Ké, la Culla, L'Himby e il Kwem; la via di Lenten, il Delta e Yzordderrex. E poi gli incroci fuori dalla città, e il deserto oltre essi, con un unico percorso che portava ai confini del Secondo Dominio. Dall'altro lato di quel confine, le pagine erano praticamente vuote. Il viaggiatore aveva tracciato gli schizzi della penisola sulla quale sedeva, ma oltre a essa aveva semplicemente scritto: Questo è un nuovo mondo.
"E qui," disse Jackeen abbassandosi per indicare la croce all'estremità del promontorio, "è dove è terminato il pellegrinaggio del Maestro."
"È sepolto lì?" chiese Clem.
"Oh no," rispose Jackeen. "È andato in luoghi che faranno sembrare questa vita come un sogno. Vedi, ha lasciato il cerchio."
"Non capisco," disse Clem. "Se ha lasciato il cerchio, allora dov'è andato? Dove sono andati tutti?"
"Dentro," disse Jackeen.
Clem iniziò a sorridere.
"Posso?" disse Jackeen, alzandosi e prendendo dalle dita di Clem il foglio che portava l'ultimo messaggio di Gentle. Amici miei, aveva scritto, Pie è qui. Sono arrivato. Farete vedere queste pagine al mondo, affinché ogni viaggiatore trovi la via di casa.
"Signori, credo che il nostro dovere sia chiaro," disse Jackeen. Si fermò per posare l'ultima pagina in mezzo al circolo, segnando il luogo degli spiriti in cui era andato il Riconciliatore. "E quando avremo eseguito quel dovere, abbiamo qui la mappa che ci indicherà la via verso casa. La seguiremo. Niente è più certo di questo. Tutti noi la seguiremo, uno alla volta."
FINE